L'atlante dei posti sbagliati - ilRecensore.it
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L’atlante dei posti sbagliati di Dinaw Mengestu

L’atlante dei posti sbagliati: Il viaggio impossibile verso casa

Mamush è un giornalista in crisi. Nato negli Stati Uniti da madre etiope, vive a Parigi con la moglie Hannah e il figlio, e cerca di tenere a bada le sue numerose dipendenze. Tornato a Washington per far visita alla madre, trova ad attenderlo una notizia inaspettata e terribile: Samuel, l’uomo che gli ha fatto da padre, si è appena tolto la vita. Affettuoso e istrionico, anche Samuel era emigrato dall’Etiopia, per poi diventare l’ennesimo tassista straniero in un paese che a poco a poco lo ha annientato. La madre di Mamush lo aveva accolto in casa senza troppe spiegazioni, e la loro strana amicizia, venata di apprensione, è l’enigma che Mamush cerca di decifrare da quando era bambino.

Di fronte al dolore per quel lutto improvviso, Mamush capisce che l’unico modo per riprendere in mano la sua vita e il suo matrimonio è fare luce su quel passato misterioso; e così attraversa gli Stati Uniti in taxi, in un viaggio in cui realtà, ricordi e immaginazione si confondono come i panorami fuori dal finestrino di un’auto in corsa.

L’atlante dei posti sbagliati” è un romanzo sull’amore familiare e sulla paternità, e sul potere della fantasia e dei ricordi nel rimettere insieme i pezzi di un’identità in frantumi.

Dinaw Mengestu dà voce allo spaesamento di chi si sente sempre nel posto sbagliato, e con una scrittura poetica e rigogliosa riesce a trasformare la parola “fine” in un nuovo, sorprendente inizio.

Leggere questo libro è come salire su una giostra, su uno di quei trenini che si muovono attraverso scenografie mutevoli e permettono a uno sguardo attonito di posare l’attenzione ora su un personaggio, ora su un particolare del paesaggio, ora su un’immagine che viene evocata da una voce narrante di sottofondo; ciò accade perché l’autore ha dato vita ad un racconto cronologicamente confuso, costruendo il romanzo in un modo perfetto e magistrale, con una narrazione che si intreccia dentro e fuori dal tempo e dallo spazio.

L’atlante dei posti sbagliati è  uno di quei libri che non si limitano a seguire un percorso narrativo, ma lo smontano, lo confondono, lo riempiono di interstizi dove la vita vera si nasconde; è un romanzo fatto di strati – che siano di tempo, di memoria, di linguaggi – in cui ogni episodio sembra appartenere contemporaneamente a più piani e ogni parola ne richiama un’altra che l’ha preceduta o la smentisce.

Lo stesso protagonista, Mamush, vive costantemente in bilico tra ciò che è accaduto e ciò che avrebbe potuto accadere, tra la verità che prova a raccontare e la finzione che lo protegge; è un personaggio fragile ma lucido, capace di costruirsi una verità anche quando sa che non esiste.

Egli è l’asse instabile di questa geografia emotiva, un uomo che non sa dove collocarsi e che allora prova a salvarsi con le parole, a tradurre la realtà nella lingua dell’invenzione; la sua è una voce sospesa, esitante, attraversata da una malinconia neppure troppo nascosta ed il suo scrivere, riscrivere e aggiustare i contorni delle cose è probabilmente un modo per difendersi, per continuare ad esistere dentro una realtà che non riconosce più.

In un equilibrio precario in cui passato e presente si avvolgono su sé stessi come due voci che si confondono, Mamush si muove fra luoghi che sembrano simili ma non lo sono mai davvero, città che promettono un approdo e diventano invece labirinti, relazioni che somigliano a un ritorno e si rivelano una fuga, modificando i fatti come se stesse correggendo una mappa imprecisa.

Ogni “posto” evocato dal titolo è un luogo mentale, una zona dove la memoria e la finzione si contaminano ed è “sbagliato” non perché ostile, ma perché è incapace di trattenere ciò che lui cerca, una versione stabile di sé.

Questa continua propensione alla rielaborazione inizialmente mette in crisi il lettore: fino a che punto possiamo fidarci della narrazione? La storia che leggiamo è una storia vera, una finzione necessaria o entrambe le cose insieme?

In realtà, ciò che Mengestu vuole raccontare è la distanza tra il mondo e il linguaggio, la difficoltà di chiamare le cose col loro nome senza che nel frattempo il significato si sia già spostato altrove.

Le cose possono trovarsi, e di fatto è quasi sempre così, in più luoghi contemporaneamente. Voi siete in questa aula, seduti a questi banchi, ma non conta nulla. Si tratta solo di una parte di voi, di una versione di voi. Se io vi chiedessi dove siete, potreste rispondermi: in un’aula ad ascoltare i discorsi di un pazzo, oppure potreste essere sinceri e dire: sono nel mio letto e sto pensando a…».

Tutto il romanzo sembra muoversi intorno a questa impossibilità di appartenere, come se Mamush cercasse non un luogo, ma un punto fermo da cui cominciare a raccontare e anche i personaggi che lo circondano non sono semplicemente figure di contorno, ma riflessi parziali della sua identità, attraverso i quali si rende visibile la complessità del suo mondo interiore; tutti sembrano vivere nei “posti sbagliati”, in spazi in cui la memoria si inceppa, dove la lingua non basta a dire ciò che si è perduto e dove il senso di appartenenza resta sempre incompiuto. 

Samuel, ad esempio, non è solo un genitore ma una guida, un punto di riferimento tanto sfuggente quanto essenziale; la sua presenza rappresenta al contempo una storia familiare non facile da decifrare e la memoria di un passato che Mamush cerca di scoprire, comprendere e rispettare.

Samuel orienta, consiglia, ma – in un modo tutto suo – incoraggia anche Mamush verso la responsabilità di decidere chi essere, facendogli percepire il peso delle radici e la necessità di confrontarsi con la propria identità.

Benché sapessi da anni che Samuel era mio padre, né lui né mia madre avevano mai preteso che io lo considerassi tale.”.

Sei come un figlio per me. Lo sai, vero? Qualunque cosa ti capiti, riguarda anche me. Lo capisci questo?».

In quel momento non lo capivo.

«Esatto. Sono come un figlio per te» dissi. «È una cosa simile, ma non è uguale».

«E qual è la differenza?».

«La costanza. Oggi dici di essere come un padre per me, ma magari domani sarai come un cugino lontano incontrato solo un paio di volte. Le similitudini possono cambiare. Possono essere riviste, rielaborate».

«Esatto. E sai cosa significa questo? Che mi sono dovuto impegnare al massimo per tenerti vicino a me».

In queste parole si concentra la complessità del legame tra Samuel e Mamush, un rapporto che è insieme biologico e simbolico, oltre che fortemente instabile, segnato da una continua ridefinizione.

Essere “come un figlio” non equivale ad esserlo nel senso compiuto del termine, la loro relazione viene tradotta in una metafora che sfugge alla concretezza; “È una cosa simile, ma non è uguale” e quella similitudine apparentemente affettuosa riflette il conflitto identitario che permea l’intero romanzo, l’impossibilità di coincidere del tutto con un ruolo, con una radice, con una verità assoluta.

Hannah, la moglie di Mamush, assume invece un ruolo complementare ma decisivo. 

La sua apparente onniscienza, la sua capacità di osservare e comprendere le dinamiche della vita di Mamush e della sua famiglia, crea un contrasto con la fragilità del protagonista; con lei si dispiega la possibilità di una vita adulta, la stabilità emotiva che Mamush cerca, ma che continua a sfuggirgli, sospeso com’è tra passato, memoria e bisogno di reinvenzione.

Hannah diventa così simbolo di relazione autentica, di casa e, al tempo stesso, specchio della distanza inevitabile tra ciò che si vive e ciò che si comprende.

Mentre aspettavo il taxi per andare in aeroporto, Hannah mi domandò: «Chi è che sta partendo? Sei tu che te ne stai andando o devo far finta che sia qualcun altro?». «Nessuno se ne sta andando» risposi.

Lei indicò la valigia ai miei piedi. «Non hai la più pallida idea di cosa stai facendo, non è vero?».

Non ebbi nulla da ridire su questo punto.

«Sarò a casa tra una settimana» le dissi, e fino a quando non atterrai a Chicago, ero quasi certo che fosse vero.”.

La scrittura di Mengestu è precisa, tesa, musicale, ogni parola è scelta per scuotere, non per spiegare; vi è un’attenzione quasi dolorosa al linguaggio, al suo potere di rivelare e tradire, di costruire mondi che non esistono ma che sembrano più veri di quelli reali e si viene trasportati in un ritmo lento, ipnotico, in cui le frasi si aprono e si contraddicono, come se il racconto stesso stesse cercando la sua direzione.

Mengestu non offre consolazioni, ma ci regala la verità di una voce che prova con ostinazione e tenerezza a nominare il mondo, anche quando sa che le parole non bastano più.

E alla fine resta Mamush, che cammina tra posti sbagliati e parole che traballano, eppure, proprio in quell’instabilità, scopriamo la misura più vera di chi siamo.

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Dinaw Mengestu è nato in Etiopia e cresciuto negli Stati Uniti. I suoi articoli e racconti sono apparsi su The New York Times, The New Yorker, Harper’s Magazine, Granta e Rolling Stone.

È autore di tre romanzi, tutti inseriti nella lista dei “Notable Books” del New York Times: Tutti i nostri nomi (2014), Leggere il vento (2010) e Le cose che porta il cielo (2007), che gli sono valsi prestigiosi riconoscimenti come la Guggenheim e la McArthur Fellowship. Nel 2017 è stato incluso nei “Best Young American Novelist” di Granta.

Autore

  • Paola Vicidomini

    Sono nata a Roma e vivo a Salerno, dove coltivo da sempre l’amore per i libri e la scrittura; avvocato di nome ma lettrice di cuore, quando è possibile preferisco affidare le cause in tribunale a mio marito e occuparmi di quelle che combattono i personaggi dei libri, ascolto le loro voci, ne raccolgo i segreti e li trasformo in recensioni che, da diverso tempo condivido in un gruppo Facebook dedicato ai lettori.
    Il mio stile è insieme analitico e personale poiché intreccio la trama con le mie sensazioni di lettrice, restituendo non solo la storia, ma anche le emozioni e le suggestioni che il libro porta con sé.
    Credo fermamente che “un libro sia un giardino che puoi custodire in tasca”: ogni lettura diventa un viaggio da vivere e condividere.

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