Poesia: tre voci, un solo respiro
In un mondo che corre, la poesia ci costringe a fermarci, ad ascoltare. Ci invita a guardare sotto la superficie delle cose, dove le parole smettono di essere rumore e tornano ad essere respiro.
Questo articolo è un dialogo a sei mani — o meglio, a tre cuori — su come la poesia ci accompagna, ci trasforma e ci unisce.
Tre voci che si intrecciano per parlare della poesia come ponte, specchio e rivelazione
Poesia, spazio sacro dell’umano di Patrizia Picierro
La poesia è un piccolo talismano, un frammento di luce che ci accompagna nel buio,
oggi più che mai — quando la notte del mondo tenta di spegnere i sogni.
È un amuleto fragile e tenace: ci guida tra le note di una melodia infantile, nei profumi degli abbracci vissuti, sulle pagine umide di lacrime e nei brividi di rabbie dimenticate.
La poesia continua a illuminare i nostri giorni,
nascosta dentro pietre levigate, refoli di mare, bufere che si placano nel silenzio.
È lì che ritroviamo il senso del nostro linguaggio,
la verità del nostro lottare,
l’intima architettura del respiro.

Tra le sue righe sospese viviamo un’altra realtà:
più vera, più nuda, più nostra.
È lì che le parole arcane trovano casa,
che il dolore si fa canto,
che la fragilità si svela come forma di forza.
“Era necessario sapersi fragili per scoprirsi invincibili,”
ha scritto Luca De Vincentiis —
e in quel respiro condiviso ritroviamo la nostra essenza più umana.
In questo spazio senza confini camminano le orme di tutti:
di chi prega, di chi sogna, di chi ama.
Alda Merini, nelle sue notti sul Naviglio, sussurrava:
“Io non ho bisogno di denaro, ho bisogno di poesia.”
E Wislawa Szymborska, con la sua ironia luminosa, ricordava che
“non c’è vita che almeno per un attimo non sia immortale.”
Le voci si cercano, si trovano, si riconoscono.
Dalle rive di Rumi, che ascoltava “la musica che unisce tutti i cuori”,
a Mariangela Gualtieri, che ci invita a “fare spazio alla tenerezza”,
fino a Ocean Vuong, che scrive: “Sopravvivere è un’arte, come amare.”
Ogni poesia è un ponte invisibile:
collega una solitudine all’altra, un volto all’altro,
ci ricorda che siamo uno.
Oggi che la terra trema di guerre e di paura,
la poesia resta l’unico luogo dove nessuno è nemico.
Ci riconosciamo nelle stesse lacrime,
nello stesso desiderio di essere felici, amati, visti per ciò che siamo.
Perché — come scrive Michele Mari —
“Tu non ricordi, ma in un tempo così lontano che non sembra stato,
ci siamo dondolati su un’altalena sola.”
E forse è proprio questo che la poesia continua a insegnarci:
che la poesia ha la stessa voce in tutte le lingue,
e ogni verso, da qualunque luogo arrivi,
parla sempre dello stesso, semplice, miracoloso bisogno:
amare ed essere umani.
Non in tribunale, davanti alla storia: la poesia a deporre per gli ultimi di Samira Shabana
La poesia è talvolta l’ultima cosa che resta, la prima che si brama quando la realtà si disfa in frammenti minuscoli, a dispetto delle contingenze e delle prime necessità, superate in urgenza dal bisogno di raccontare e raccontarsi, secondo i principi del bello e del vero.
Spesso è la voce indimenticata di chi non ha altro che un verso da recitare, tra le labbra riarse dalla sete e le gote scavate dalla fame, sotto le bombe o il tiro di un fucile carico, oppure, ancora, nel rumore infernale degli ingranaggi di un sistema dove l’uomo è soggiogato alla macchina e alla smania del profitto.
È un’arma, coincisa e affilata, puntata al cuore della sopraffazione e della guerra, decisa a ribaltare i rapporti di forza o a tramandare la voce di chi è stato silenziato con la forza.
È, soprattutto oggi, l’unico modo per dare spazio, resistenza, sopravvivenza all’umanità che vive dentro ciascuno di noi, e che rischiamo di vedere mutilata, schiacciata, soffocata.
Lo sanno i poeti operai che, nella seconda metà del secolo scorso, raccontano non solo una classe, ritagliata dalla società attraverso la lente del lavoro, ma prima ancora la loro individualità, nella libera espressione artistica della parola che nessuna forma di sfruttamento, nessun salario misero, nessun impiego alienante può sottrarre loro.
“I miei compagni morti non sono
mai esistiti” scrive Ferruccio Brugnaro, e incarna così il migliaio di caduti sul lavoro che si registrano ogni anno.
“il Dio che è nelle nostre mani
il Dio fresato e saldato ogni giorno” prega laicamente Luigi di Ruscio.

Forse lo immaginava Itzhak Katzenelson, sigillando il suo “Canto del popolo yiddish messo a morte” nelle tre bottiglie sepolte ai piedi di un palo, nel campo di concentramento francese di Vittel.
D’altronde, i partigiani ebrei non avevano avuto dubbi: dal ghetto di Varsavia, salvare i poeti, salvare i diari, salvare i manoscritti.
“Il mio popolo in festa, forte di fede andava incontro a una giovane vita e adesso al termine, al finale”
Ne sono certi i poeti di Gaza, che, grazie alle sporadiche finestre di connessione a Internet, ci permettono di leggere i loro versi, ricordandoci che, tra le macerie e la sopraffazione, una scintilla inesauribile, vicinissima al concetto più puro e distillato di umanità, continua a splendere.
“Ho chiuso gli occhi ed è giunta la luce” , ci giunge oltre le mura del carcere la voce di Dareen Tatour, imprigionata con l’accusa di terrorismo per una poesia (quanta paura può fare un verso?).
“In tempo di guerra non contare sui poeti” ci avverte Marwan Makhoul, poiché i poeti sono lenti e il massacro corre veloce, ma, a volte, dopo che ha fatto razzia, solo le parole dei poeti possono avvertire chi rimane.
Yahya Ashour appare lucido nella profondità del suo dolore: “Gioisci, o Gaza: / non siamo più uccisi mentre il mondo dorme. / Il mondo è ben sveglio: balla e canta”. D’altronde, ce lo aveva ben detto Izet Sarajlič nelle lettere scambiate con Erri de Luca a proposito del sanguinoso conflitto in Bosnia Erzegovina: “Chi ha fatto il turno di notte per impedire l’arresto del cuore del mondo? Noi, i poeti”
La forza delle parole per sfiorare l’anima di Samanta Giambarresi
Mi capita spesso di soffermarmi in strette vie del centro storico a osservare dei panni stesi che, mossi dal vento, sembrano danzare. Vorrei afferrare quel momento e farlo mio ma anche mostrarlo. La stessa cosa accade quando in un giorno assolato, mi ritrovo a sentire frinire le cicale magari tra gli alberi. E penso sarebbe bello riuscire anche a trasporlo in parole. E quali sono queste parole che riescono a esprimere questi momenti. Sono le parole della poesia.
“Quand’ecco da tutti
gli alberi un suono s’accorda,
un sibilo lungo che assorda,
che solo è così: le cicale.”
(Umberto Saba)
Siamo in un mondo digitalizzato ma l’uomo resta legato a quest’espressione intima e magica della poesia. Perché la poesia resta il linguaggio universale dell’uomo anche se si è modificato nei secoli e adesso cerca di emergere nella nostra epoca sperando di non finire sulle note di un telefonino. Eppure una cosa che la poesia fa è unire le persone con il linguaggio e la condivisione. Sia che siano i momenti più allegri o momenti tristi o ancora dolorosi, abbiamo bisogno di condividere quel brandello di verità (intesa come momento autentico e reale).
Condivisione può essere un momento allegro, come quando siamo tra amici e ci vien in testa di fare rime scanzonate, oppure quando ci troviamo davanti a un panorama mozzafiato o ci sentiamo feriti. La poesia ci avvicina
“Non posso darti soluzioni per tutti i problemi della vita
Non ho risposte per i tuoi dubbi o timori,
Però posso ascoltarli e dividerli con te.
Non posso cambiare né il tuo passato né il tuo futuro,
Però quando serve starò vicino a te.”
(Jeorge Luis Borges)
La parola della poesia continua ad avere un potere sull’anima delle persone.
I poeti, abbiamo ancora bisogno di poeti, di quelli autentici, di quelli che cercano e ricercano le parole giuste per esprimere le proprie emozioni, un po’ come faceva Anne Sexton che le cercava, ne rimaneva delusa ma non poteva farne a meno.

State attenti alle parole,
anche a quelle miracolose.
Per le miracolose diamo il meglio,
brulicano alle volte come insetti
lasciando non un pizzico ma un bacio.
Possono essere buone come le dita.
Possono essere affidabili come le rocce
su cui mettiamo il sedere.
Ma possono essere sia margherite che ferite.
Eppure io le amo.
Sono colombe cadute dal soffitto.
Sono sei arance sacre appoggiate in grembo.
Sono gli alberi, le gambe dell’estate,
e il sole, con il suo volto appassionato.
Eppure spesso mi deludono.
Ho così tanto da dire,
così tante storie, immagini, proverbi, ecc.
Ma le parole non ce la fanno,
mi baciano quelle sbagliate.
A volte volo come un’aquila
ma con le ali dello scricciolo.
Provo comunque a prendermene cura
e ad essere gentile.
Uova e parole vanno maneggiate con cura.
Una volta rotte non si possono
riparare.
Abbiamo scritto a sei mani, ma ciò che resta è una sola voce:
quella della poesia, che non appartiene a nessuno e abita in tutti.
Ci spoglia, ci ricuce, ci trasforma.
Alla fine, ogni verso torna al silenzio da cui è nato —
e in quel silenzio, noi torniamo a noi stessi.
Tre voci, un respiro.
Un’unica parola: umanità.


