Primmammore: tra memoir e denuncia sociale
SINOSSI
Periferia di Napoli. Sull’asfalto la sagoma di una bambina di sei anni, precipitata dall’ultimo piano. Un incidente? Il palazzo riprende i suoi traffici, il vocio diffuso tra le scale copre i silenzi omertosi, gli odori delle cucine sovrastano la puzza dei sospetti. Eppure Costanza, maestra della bimba, intuisce che quella morte non è stata un tragico incidente.
Anche Marco, figlio di Costanza e giornalista come suo padre, nutre molti dubbi. Madre e figlio penetrano così nell’intricato sistema di scale e corridoi del palazzo maledetto. Intercettano segreti, bugie, violenze. Intanto Costanza torna con la memoria alla giovinezza delle lotte sociali condivise con Sirio, l’amore di una vita. Rivive l’esperienza della Mensa dei bambini di Montesanto, la voglia di rivoltarsi contro il patriarcato.
Torna qui la Napoli del colera, del terremoto – resa unica dai suoi scrittori, dai suoi tanti artisti. Ma il suo rievocare accende anche alcune domande: il male è confinato solo tra le mura di quel palazzo di periferia? E perché avverte il dolore della madre della bimba così vicino al suo? Per arrivare alla verità, Costanza deve prima comprendere un mondo altro, retto da leggi contro natura o criminose.
Titti Marrone mette al centro la sua Napoli, teatro di un “primmammore” malvagio e di un altro appassionatamente animato dalla voglia di riscatto.
Un romanzo sulle periferie che richiama alla mente uno dei peggiori fatti di cronaca degli ultimi anni, ma che è anche la storia dell’impegno disinteressato di generazioni di giovani a tutela dei più deboli.
“Ma questa storia non sta su un altro pianeta, né chiusa in un palazzo o in una periferia maledetta. Succede nel mondo dove abitiamo tutti, dove tutti respiriamo la stessa aria. A pochi chilometri da qui. Nella nostra città.”
Tra gli ultimi titoli, La donna capovolta (Iacobellieditore, 2019), Se solo il mio cuore fosse pietra (Feltrinelli, 2022), Primmammore (Feltrinelli, 2025).
RECENSIONE
Primmammore non è lo sguardo su un terribile fatto di cronaca, non è il racconto di una serie di efferati accadimenti, non è uno spaccato fedele e doloroso di Partenope e non è il viaggio intimo e manifesto delle donne. Primmammore è tutto questo insieme, è schiaffo e carezza, è orrore e speranza, è annichilimento e rivalsa.
Titti Marrone armonizza la fluidità letteraria e la perizia giornalistica, di cui è accreditata esponente, dando vita a un linguaggio veritiero, crudo e profondo con cui accompagna il lettore nelle fila di quel terribile fatto di cronaca, avvenuto a Caivano il 24 giugno del 2014 e che è l’incipit della storia, ma non l’unico orrore narrato, e la pelle ci trema perché entriamo in un dolore che rabbuia l’anima. Il tipo di dolore che trasforma la vita in un cuore di cartapesta e l’unico desiderio che riesci a sentire è quello di tornare indietro, nel punto esatto in cui l’alternativa è ancora una scelta.
“Rinominare la vita, cambiare le parole per far andare tutto a posto”.
Invece quelle parole le devi sentire, ci devi cadere dentro e lasciare che ti attraversino, che ti cambino la pelle e il respiro per permetterti di non spegnerti.
La profonda intimità del linguaggio utilizzato da Titti è tale da vivisezionare gli atomi del dolore vissuto, estrarne l’essenza e cucirla nelle parole e nel sangue dei personaggi, che potrebbero incarnarsi in ognuno di noi.
Perché spesso, se non sempre, cavalcare felicemente la vita o esserne terribilmente deformati, è solo questione di esser nati e cresciuti nella parte fortunata o in quella sfortunata del mondo, e di credere che puoi avere tutto quello che vuoi o al contrario di pensare che la vita sia scavare la terra con le unghie.

Come dice Antonia del Sambro durante una splendida presentazione alla Feltrinelli di Firenze, pur nell’orrore della vicenda, Titti riesce ad imprimere delicatezza alla scrittura come se le parole scelte per dare una necessaria tregua fossero gocce di rugiada. L’attenzione e la cura del dettaglio con cui scrive sono il fil rouge di tutta la sua produzione letteraria e giornalistica, un dettaglio che ritroviamo anche nei volti e negli sguardi delle persone, nei dialoghi e nei silenzi.
La storia si muove avanti e indietro di 30 anni, a Napoli, territorio di affanni e disastri che in una manciata di decenni ha attraversato il colera, il terremoto, la corruzione, la criminalità, la miseria, l’ingordigia, l’abuso.
Un luogo dove imbucare la strada sbagliata sembra d’obbligo, perché è tracciata, camminata da tutti quelli venuti prima e quindi scontata. E per non mettere i piedi nelle stesse orme ma riuscire lo stesso a camminare devi resistere, resistere, resistere e costruire un “altro diverso”, lavorando insieme, offrendo alternative, mobilitando coscienze e menti, educando. Così si crea la speranza, così si alimenta, così si rinasce.
Suggestiva è l’immagine che Titti dipinge della speranza, che continua a pulsare nonostante la sopraffazione, l’abuso, la disuguaglianza e l’ingiustizia, come un fiume che si muove incessante tra chi ha bisogno di aiuto e chi ha la possibilità di offrirlo. La differenza la fa l’agire. E in questo romanzo ad agire sono le donne, mogli, madri, figlie, adulte, bambine, disilluse, combattenti, accondiscendenti, sommesse, rivoluzionarie. Tra tutte spicca Costanza, vera protagonista del romanzo.
Costanza è la madre di Marco, il giornalista che dovrebbe possedere “cinismo e pelo sullo stomaco” per raccontare le atrocità di cui sono ammantati i fatti di cronaca su cui indaga. “Questo è un articolo impossibile da scrivere. Credi a me, mamma, non posso proprio”.
E come si fa a raccontare di una bambina che ha appena cominciato le elementari, violentata costantemente e poi uccisa? E come si può scoperchiare un vaso di pandora che racchiude il più inqualificabile dei mali e che è solo l’inizio?
Le indagini portano alla luce un terribile giro di pedofili composto anche da amici e parenti dei bambini convolti. E scavano indietro nel tempo. E trovano altre terribili storie
“Il ricordo che le si accendeva adesso era doloroso, riguardava una bambina minuta di non più di otto anni. Enza. Aveva abbozzato su un foglio una forma di uomo disteso su una bambina e aveva scritto [gli uomini tengono il serpente]. Chi è quest’uomo? Mio padre”. E il cuore si spezza.
Costanza è la moglie di Sirio, il Pigmalione autodeterminato che “si sentiva responsabile della sua formazione intellettuale, che si inorgogliva dell’intelligenza, della reattività e della vivacità di lei”. Lei, che vive la dicotomia tra il desiderio di emancipazione dal marito e la consapevole accettazione di essere funzionale solo restandogli all’ombra.
Costanza è la maestra di Nina, la bambina “affettuosa, desiderosa di coccole e abbracci come tutti i bambini che ora non vuole più essere toccata”. La vediamo in un’istantanea che la incornicia sorridente con le scarpine rosa e un peluche azzurro, prima che il mondo a cui guardava con tutta la sua innocenza le strappasse via la vita lasciandone “un’impronta di gesso sbiadito sull’asfalto a contornarne il corpo che non c’è più”.
Annoda la sua vita a quella di Melina, mamma di Nina. Si immerge nel dolore di lei sentendone i contorni e la profondità, ci ritrova il suo così diverso nei fatti così analogo nel non volerlo attraversare.
Questa rilettura della sua vita come di un fallimento rispetto al suo impegno di femminista convinta, del suo lavoro di educatrice sociale e di volontaria nella comunità, avrebbero potuto scaraventarla nell’annichilimento e invece diventano la chiave per rimettersi in gioco e ricominciare la lotta. Tornare ad agire per la rivalsa delle donne, per la difesa dei bambini e delle bambine che saranno il mondo di domani, per la salvezza della società.
Costanza è un personaggio bellissimo, complesso, ricco di sfaccettature emotive, una donna con il fuoco della libertà e dell’indipendenza che le pulsa dentro, anche quando lo lascia in disparte.
Lei è la voce che ci tocca, che ci ricorda che bisogna farsi carico, prendersi a cuore e assumersi la responsabilità di quello che ci accade intorno, non voltare la testa dall’altra parte, non essere conniventi nell’omertà, soprattutto di fronte a crimini contro i più deboli, i bambini, perché tacere non è esercitare indifferenza ma diventare colpevoli.
Fare la lotta di classe, sì. Impegnarsi in azioni politiche, economiche e sociali, sì, sempre. Ma farlo tutti e nelle singole azioni quotidiane che partono dal rivolgere lo sguardo intorno a sé, fuori da sé stessi, dirigerlo dove c’è bisogno di aiuto, di solidarietà, di mani tese e aiutare, aiutarsi.
Il mondo diventa l’agito di ogni singolo individuo e l’azione comunitaria diventa il nutrimento della classe politica che non potrà mai sedere in nessun posto che la comunità non gli riconosca. Siamo responsabili. Tutti, ognuno, sempre.
Titolo: PRIMMAMMORE
Autore: TITTI MARRONE
Editore: FELTRINELLI
Genere: narrativa contemporanea – memoir e denuncia
AUTORE

Titti Marrone: è una giornalista e scrittrice italiana. Ha scritto sul “Mattino” di Napoli dal 1980 al 2012, poi sull’Huffington Post. Si è occupata di teatro, storia delle idee, letteratura e politica. Ha insegnato dal 1996 all’Università storia e tecniche del giornalismo.
Negli anni Ottanta la sua ricerca si è focalizzata sulla storia del Mezzogiorno (Riforma agraria e questione meridionale, De Donato 1981). Ha scritto inoltre: Il mestiere di regista teatrale (Marcon 1992); Controluce (Pironti 1995) insieme a Gustaw Herling; Il sindaco (Rizzoli 1996); Meglio non sapere (ultima edizione Laterza 2013).
Con Mondadori ha pubblicato Il tessitore di vite e Questo bimbo a chi lo do (2013).