Lezione inaugurale della XXXVII edizione del Salone Internazionale del Libro

La XXXVII edizione del Salone Internazionale del Libro si è conclusa con un grande successo, registrando 231.000 visitatori. Durante i cinque giorni dell’evento, sono stati organizzati 2.647 eventi, con 1.513 nel programma principale e 315 che hanno registrato il tutto esaurito.

Il Salone è stato aperto dalla lectio inaugurale ‘Vediamo un po‘ di Yasmina Reza in cui la grande scrittrice e drammaturga esplora l’origine dei suoi personaggi e del proprio immaginario letterario.

Yasmina Reza appartiene alla famiglia dei grandi ironisti, la vitalità delle sue drammaturgie e dei suoi romanzi scortica la realtà e ci restituisce un mondo feroce e commovente, comico e fragile.

la vita normale di Yasmina Reza - ilRecensore.it

Un po’ come fa nel suo nuovo libro, La vita normale , appena arrivato in libreria per Adelphi, in cui si concentra su “frammenti di umanità”.

Annalena Benini, Direttrice editoriale del Salone, arriva in sala e annuncia l’arrivo della scrittrice Yasmina Reza.

Dopo l’assalto dei fotografi, Yasmina prende posto sul palco e inizia a parlare…

Prendere la parola a prescindere da ciò che scrivo, e senza che qualcuno mi faccia delle domande, non è un esercizio che mia sia familiare. Spero perdonerete la relativa brevità di questo testo. Ho la mania della concisione, l’ho avuta sempre, e col tempo la cosa non accenna a passare. In una docuserie che ho visto su Netflix, una donna condannata all’ergastolo per omicidio viene interrogata nel parlatoio di una prigione. A una domanda, che non sentiamo ma che intuiamo, risponde: «L’infanzia? Vediamo un po’…».

E si mette a ridere.

Quell’espressione – Vediamo un po’ – riferita all’infanzia, e subito seguita da una risata, mi ha al tempo stesso sconcertato e colpito per la perfezione della sintesi. Quasi che si trattasse di dispiegare davanti a sé una carta geografica complicata che non si ha tanta voglia di consultare. O di aprire una scatola con cautela e non poca diffidenza, per poi richiuderla appena possibile.

Ore 14 – Sala Oro – Padiglione Oval

Il «Vediamo un po’…» non avrebbe lo stesso valore se non fosse seguito dalla risata.

È proprio la risata a conferirgli la sua dimensione di ironia e di impossibilità. La risata della catastrofe. Una risata che riconosco a dieci km di distanza. Quel «Vediamo un po’…» e quella risata dicono tutto quanto c’è da dire. E chiudono la porta. Quando diventi qualcuno da un punto di vista sociale, quando acquisisci una certa notorietà voglio dire, puoi fabbricarti un doppio pubblico. Puoi scegliere gli elementi della tua narrazione. Un giorno una mia amica, parlando di un possibile fidanzato, mi ha detto: gli ho raccontato la mia vita, cioè, la mia vita numero dieci, quella riservata a tipi del genere in situazioni del genere. Le informazioni che ho dato sulla mia infanzia nel corso degli anni sono state la mia vita numero dieci. Ottimizzata, imprecisa. Nessun dettaglio sugli elementi significativi.

Gli scrittori durante l’infanzia si costruiscono la materia della propria opera.

Tutto quanto costituisce l’immaginario di un uomo, le sue ossessioni, è racchiuso nelle ore di noia, nelle fantasticherie, nei dispiaceri, in tutte quelle emozioni primordiali e ricorrenti dei primi tempi. E spesso è l’infanzia stessa a diventare materia di scrittura. Sono molti gli autori che l’hanno affrontata, che sono tornati a quell’infanzia in narrazioni che sono, in alcuni casi, le loro opere migliori. Io mi sono accontentata di quel «Vediamo un po’…» (risata inclusa). Uno sguardo a distanza di sicurezza, selettivo. Potevo escludere me stessa dal paesaggio ma avevo a disposizione persone che avevano plasmato la mia esistenza e alle quali bastava ridare voce sotto altre forme e altri nomi. Potevo fargli vivere crisi di ogni sorta senza esserne personalmente coinvolta. Sono diventati personaggi.

I miei personaggi. Non erano persone comuni. Non erano persone qualsiasi. Erano pesanti, e divertenti.

Movimentavano la vita. Perché la vita deve essere movimentata. L’anno scorso le edizioni Gallimard hanno riunito una parte della mia opera in un volume della bellissima collana «Quarto». Per questa raccolta, che includeva un testo introduttivo inedito di natura più o meno autobiografica, occorreva un titolo. Non c’è stato bisogno di cercarlo tanto: Veniamo da lontano. È preso da una frase di una mia pièce, James Brown si metteva i bigodini: «Non ti offendere, tesoro. Veniamo da lontano. Facciamo del nostro meglio. Ma a volte non sappiamo che ci prende». In quella specie di prefazione dicevo che la frase in questione è la mia preferita della pièce, e che in fondo riassume tutto quello che ho scritto.

Questo Veniamo da lontano è un accenno alla mia genealogia.

Che è vastissima, e si stende ben oltre i legami di sangue. Sono coloro che ho tirato fuori dalla scatola dell’infanzia, e che hanno popolato i miei testi. Persone che in apparenza offrivano garanzia di urbanità, ma erano preda di pulsioni radicalmente opposte. Persone non riducibili a una categoria sociologica. Che alcuni commentatori, per quanto riguarda il mio lavoro o me stessa, abbiano operato una tale riduzione mi ha fatto soffrire.

Mi è sempre parsa totalmente inadeguata. Persone insofferenti, impetuose, talvolta violente. Persone che uscivano facilmente dai gangheri. Perone che erano fonte di imbarazzo e ce la mettevano tutta per farci vergognare. C’erano anche, all’opposto- poche, ma di natura oltranzista -, persone di un’indolenza scandalosa, la cui inoperosità poteva arrivare a includere anche i doveri più elementari. Potevamo contare sul fatto che nessuno di loro fosse mai prevedibile, rassicurante, uguale ai membri di altre famiglie, ai loro conoscenti. Ma nella loro stessa stravaganza io scorgevo l’energia vitale e il non conformismo.

Venivano da lontano. Non soltanto da altre regioni del mondo. Da lontano, semplicemente, da vite che non conoscevamo. Da un passato confuso, difficile. Di cui loro non dicevano nulla, o quasi.

A casa nostra, non eravamo ragionevoli. Non c’era altro da sapere. Ma era già tanto. I miei personaggi sono sradicati, fluttuanti, non hanno uno spazio proprio. Uso sradicati in senso ampio, non necessariamente fisico. Mi riferisco a un sentimento esistenziale. I miei genitori e molti dei loro conoscenti erano fisicamente sradicati, sradicati in tutto, direi, paese, lingua, religione, cultura, tutto, ma portavano quello stato di non appartenenza senza alcuna nostalgia della terra. Questo sentimento esistenziale che include l’enigma del caso, dei geni, e che io stessa provo, è stato il fondamento di tutto quello che ho scritto. Come? Non saprei dirlo. Ma la piccola popolazione che ho tirato fuori da questo «Vediamo un po’…» è esattamente questo. Creature sfasate, non completamente sgrossate, anche se niente, in apparenza, le identifica come stranieri. L’uomo non è chimicamente puro.

La letteratura, la creazione, l’arte in generale consistono interamente nel sondare la sua imperfezione. Un giorno – avrò avuto dodici o tredici anni – facevo shopping con mia madre. Era un evento piuttosto raro. Verso metà pomeriggio ci siamo fermate in un caffè. Era pieno, così abbiamo deciso di bere qualcosa in piedi. La donna dietro al bancone era sola.

Correva da un capo all’altro visibilmente sovraccarica di lavoro. Nel suo cappotto elegante, mia madre ha cominciato a spazientirsi.

Appena la donna le passava davanti, mia madre attirava la sua attenzione con una frase inopportuna per ricordarle che stavamo aspettando. Non era sgradevole, ma sventata, fuori luogo, insensibile al lavoro degli altri e all’ambiente in cui si trovava. Io mi sentivo a disagio. Mi vergognavo. Mi sforzavo di arginarla.

A un certo punto la donna ha urlato Vuoi stare zitta? Vuoi chiudere il becco? Uno scatto violento e improvviso. Il tono, il darle del tu. Mia madre è rimasta pietrificata, e subito le sono salite le lacrime agli occhi. L’ho trascinata fuori e ho tentato di consolarla. Avevo voglia di uccidere la donna che aveva aggredito mia madre, ma al tempo stesso, nel mio intimo, le davo ragione, la capivo, tutto il mio essere la capiva. Sentimenti contraddittori di questo genere ne ho provati incessantemente nella prima parte della mia vita. Li ho provati in modo più grave di quello che ho appena descritto, che è solo un aneddoto. Finora però, non sono mai riuscita ad affrontare di petto questa materia.

Sin dall’infanzia ho saputo che il mondo non era binario, che non c’erano da una parte il bene e dall’altra il male. La ragione e il torto. La religione, la legge, i tribunali si occupano di tali classificazioni. Anche la letteratura ma senza elaborare gerarchie o giudizi di valore.

Sin dall’origine ho capito che gli uomini fluttuano in una grandiosa ambivalenza e che per lo più sono governati dai nervi. Ed è proprio questo quello che mi interessa maggiormente.

Ciò che non si riesce a controllare, o che non si vuole controllare. Un ampio ventaglio di stati d’animo, che vanno da un’irritazione insignificante al furore e che per me sono alla base dell’esperienza umana. Troppo spesso, ai giorni nostri, l’aspetto organico delle cose, il lato selvaggio, viene minimizzato a vantaggio di una lettura sociale, di questioni morali o psicologiche. Nel mondo così idealizzato si lascia da parte ciò che è grossolano, primitivo. Personalmente, non so cosa sia la psicologia all’infuori del fattore nervoso. Ho costruito tutti i miei personaggi a partire dalla loro indole emotiva. Ed è perciò che ho sempre attribuito un’importanza fondamentale al ritmo. Ritmo delle parole, delle frasi, ellissi, cambiamenti di registro. Ho scelto le parole per il loro colore.

Non ho mai pensato che ci fossero da una parte il mondo e dall’altra le questioni intime. Mi spingerei fino a dire che ci sono solo le questioni intime. Se gli uomini prendono sul serio i problemi del mondo è perché li distraggono da sé stessi.

Gli uomini pensano che i problemi del mondo siano più importanti dei problemi privati. Un’idea comoda, ma assolutamente stupida. I problemi del mondo non sono altro che strascichi di problemi privati. Su questo tema c’è un bel racconto di Dino Buzzati, Povero bambino. Occupandomi solo degli uomini, e interessandomi unicamente all’esperienza individuale, non ho mai avuto l’impressione di non occuparmi dei nostri tempi. Anzi. In una lettera a Dmitrij Grigorovic, Cechov, a mio parere il maggior testimone della sua epoca, scriveva: «Non possiedo una visione del mondo politica, religiosa o filosofica immutabile. La cambio ogni mese. Di conseguenza devo limitarmi a descrivere il modo in cui i miei personaggi amano, si sposano, hanno figli, si esprimono.» quel che più mi piace di questa citazione è la parola ‘limitarmi’.

Ho sempre avuto l’impressione di essermi limitata agli esseri umani. Sono loro, quelli che si agitano nei miei testi, l’inizio e la fine della storia. Non si accenna mai a un contesto storico o sociale, né mai si descrivono paesaggi, oggetti – niente che non si riferisca direttamente allo stato d’animo di qualcuno.

Gli esseri umani sono soli e sono tutto. Senza uomini, nessuna narrazione possibile, quindi nessuna realtà. A molti dei miei personaggi capita di essere aggrediti dal blues, dalla malinconia.

Tengo molto al verbo aggredire. L’ho sempre usato. Forse in certe pièce si nota meno, ma c’è sempre. Sono aggressioni improvvise, per un nonnulla, tranne una modificazione del ritmo.

Qualcosa che viene da lontano. Un brusco cambiamento di percezione del mondo che nessuno attorno a loro capisce. Perché non si tratta di una percezione del mondo, ma di una percezione del tempo. Il blues insorge quando il tempo comincia a passare senza di noi. Gli altri, tutti gli altri, ballano lontano, altrove. E noi siamo solo un pacchetto lasciato da qualche parte. Ogni istante perduto è grave. Quelli a cui do vita non vogliono perdere niente, anno che indietro non si torna.

Nel suo discorso di fine anno, facendo un bilancio del 2024, il presidente russo ha osato dire: “Quando va tutto bene, è tutto calmo, e la situazione è sotto controllo, ci si annoia. Si stagna. Occorre che le cose si muovano. Appena comincia il movimento, alle nostre orecchie fischiano i secondi e le pallottole.” Putin del discorso morale se ne sbatte, il suo cinismo non ha limiti, ma nel discorso dei grandi cinici possiamo cogliere anche delle verità.

Quando da bambini ci si è sentiti messi da parte, forse in seguito si è disposti a tutto pur di sfuggire alla noia. Sfuggire al tempo che si consuma nel vuoto. 2Occorre che le cose si muovano”. Il movimento dà l’illusione del divenire. Restare nel divenire è la principale ossessione di quelli che ho tirato fuori dalla scatola.  Persone che non sono guerrafondai (potrebbero esserlo se fossi capace di scriverli), ma che per lo più non rispondono alle esigenze attuali di pensiero virtuoso che al minimo rallentamento si sentono escluse dalla vita. Il personaggio di carta – preferisco dire di carta piuttosto che inventato, perché non sempre è inventato – non è un modello. Non deve essere edificante. In ogni caso, contrariamente all’opinione comune, se il male è pressappoco riconoscibile, il bene lo è di meno.

Il mondo quale si presenta oggi è difficile da cogliere. La velocità del cambiamento e dell’ordine stabilito provoca una sorta di paralisi del pensiero. Ancora Cechov: “E’ tempo che scrittori e artisti prendano coscienza del fatto che è impossibile capire alcunché di questo mondo”. Un’affermazione radicale che mi colpisce profondamente. Già all’epoca ci voleva coraggio per dire una cosa del genere.

Come oggi, all’artista veniva intimato di impegnarsi, di prendere una posizione pubblica. In altre parole, c’era già questa confusione tra l’intellettuale e l’artista. Per me il personaggio di carta è per sua natura un essere smarrito che si domanda come vivere.

Poco importa quale sia il suo status. Ai miei occhi è questa la situazione da affrontare, nient’altro che questa. Ed è in ogni caso un problema immenso, sconfinato. Quelli di cui mi servo sono gli scampoli dispersi della vita. La materia migliore. Fatti apparentemente futili, frasi colte al volo. Tutto quanto sfugge alla logica primaria.

A ispirarmi è l’assenza di senso (e non il contrario). Col tempo il mio vivere si è ampliato. La mia genealogia letteraria si è arricchita dei miei rapporti personali, delle persone che ho scelto di attorniarmi, tutte non meno inclassificabili di quelle che popolavano la mia infanzia. I miei amici. I miei amici riumanizzano il mondo. Lo rendono divertente e misericordioso. Pronunciano frasi incongrue che colgo al volo, fanno cose incongrue che mi ispirano. I miei amici posseggono una poesia che agisce da filtro e spalanca prospettive nuove. Quando penso al mondo attuale, in quanto materia prima, penso al mio amico H., che nella sua libreria ha da un po’ due Trump in miniatura più uno grande di cioccolato a fianco di una Golda Meir in collana di perle. Che senso ha? Lui stesso lo ignora.

Durante la campagna presidenziale americana, insieme alla moglie si divertiva a fare il ballo di Donald Trump. Sostiene che la moglie è bravissima. Ha capito che tutto parte dal mento. Una spinta della mascella inferiore che mette in moto lo swing interno. Adesso, quando si incrociano nel loro appartamento, tutti e due accennano il ballo di Trump. Giusto il mento, due mossette con le braccia e il lieve piegamento del ginocchio. Non una parola. A volte basta un avanti-indietro della spalla. Quando mi viene voglia di scrivere mi passano per la mente scene come questa. Quei due da soli a casa loro a mille miglia da Mar-a-Lago. Il mondo rivisitato a dimensione umana. Quando mi viene voglia di scrivere do un’occhiatina al vivaio di cui ho parlato e mi dico: «Vediamo un po’»

Ore 14.30 – lezione terminata

È il primo anno che riesco ad assistere alla lezione inaugurale.

Ecco, mi aspettavo decisamente altro.

Una lezione inaugurale, penso, dovrebbe legarsi almeno al titolo dell’evento – Le parole tra noi leggere. Partire da questo e legarlo a tutto il resto.

Mi è sembrato che il discorso di Yasmina Reza fosse più un discorso legato soprattutto al suo ultimo romanzo, La vita normale.

Posso dire che sono rimasta delusa.

Vediamo l’anno prossimo cosa ci riserverà!

Autore

  • Titty

    Socia fondatrice della Rivista IlRecensore.it e social media manager, Blogger, bookstagrammer e speaker radiofonica. Gli studi classici mi hanno aperto la via ai libri e da allora non ho più smesso. Accumulatrice seriale di libri, non mi bastano 24 ore al giorno per leggere tutti i libri che vorrei leggere e, soprattutto, non mi bastano le librerie che ho in casa!

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