Nicoletta Verna
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Nicoletta Verna: scrivere con la pioggia

Nicoletta Verna A tu per tu con ilRecensore.it

Nicoletta Verna

Dopo aver visto la bella presentazione alla libreria Ubik Rinascita di Sesto Fiorentino e dopo aver recensito il suo I giorni di Vetro proprio su queste pagine, qualche settimana fa, abbiamo fatto quattro chiacchiere al telefono con Nicoletta Verna, in una quasi intervista che ci piace proporvi con lo stesso tono colloquiale.

Giovanni: Ciao Nicoletta, bentrovata e grazie per questo tempo. Io non ho domande preparate ma, se sei d’accordo, vorrei approfondire alcuni aspetti del libro che mi sono piaciuti molto. Uno di questi è il tema della contaminazione, perché il tuo è un libro non facile da classificare, che affronta tanti generi in uno. Non è una saga familiare, ma lo è. Non è un libro sul ventennio, ma lo è. Non è un libro sulla guerra e sulle meccaniche della distruzione di una nazione, ma lo è. Quindi è un libro di narrativa a tutto tondo, e una delle cose che mi hanno incuriosito è: L’hai pensato già ambientato storicamente o l’ambientazione è stata una cosa successiva?

Nicoletta Verna : «È stata assolutamente prioritaria. Fin dall’inizio io avevo due idee forti. Poi, come sempre accade, il romanzo è cambiato, mi si è evoluto nelle mani e sono arrivate altre cose. Ma le due idee portanti con cui ho iniziato, l’ambientazione storica e quella geografica, sono rimaste.

Una storia ambientata durante il fascismo a Castrocaro, in Romagna, era per me la base. Da un punto di vista narrativo, il fascismo è stata sempre una mia ossessione perché è un periodo che ho vissuto, indirettamente certo, eppure in modo molto forte. Per me come per tanti della nostra generazione. Ma per i nostri genitori e per i nostri nonni, era una necessità e un’urgenza parlarne, e soprattutto farlo in modo partecipato e assiduo. Da qui è nata in me l’esigenza di raccontare quell’epoca. E poi la Romagna.

Nicoletta Verna - I giorni di vetro

Perché è la mia terra, ma è anche la terra di Mussolini, perché sono successe tante cose e quel substrato ancestrale ma anche vivace e vitale, volevo metterlo in luce. E’ questa la primissima spinta verso la scrittura de I giorni di Vetro che poi si è mantenuta.»

G.: È vero, i nostri nonni o genitori hanno sentito fortissima questa esigenza di trasmetterci un monito, il racconto di un qualcosa di eccezionale, una specie di pazzia che a un certo punto si è diffusa come un morbo in questo contesto di povertà, di miseria, fino a farlo sconfinare nel surreale. È impazzito il mondo, si dice. E questo nel tuo libro è descritto benissimo. Nella recensione evocavo il realismo magico sudamericano ma nel tuo libro il surreale non è nei morti evocati ma nelle dinamiche che accadono nel paese.

Nicoletta: «Certo, è senz’altro così. E’ un libro che di certo parte con un tono quasi fiabesco, anche se non so dirti fino a che punto questo sia stato fatto con consapevolezza.

Una fiaba nera, certo, ma nei toni fiabeschi che caratterizzano la prima parte, si sorride, si vivono dinamiche buffe e colorite, per arrivare piano piano ad un tono orrorifico. Più surreale nel senso che tu dici.

Si può parlare di tono fiabesco perché ciò che si racconta di quei tempi, con gli occhi di oggi ci sembra ancora incredibile. E dovremmo dire per fortuna. Lo sappiamo bene, non esiste un romanzo crudele e forte quanto la realtà, ma nel romanzo abbiamo la possibilità, che la realtà spesso nega, di poterci avvicinare gradualmente all’orrore..

Molti lettori mi hanno scritto “Ah, io ero partito anche così in modo divertente, poi arriva questa violenza così improvvisa e così atroce. Perché?” E a me viene da rispondere che sia per un senso di mimesi, perché davvero andò così. La società passò da una condizione di povertà e di miseria al fascismo, a una guerra che invase ogni casa e ogni animo umano pronto ad uccidere i propri genitori e i propri figli. L’andamento del romanzo segue, nel mio intento, l’andamento di quel periodo. Che poi è quello che succede con le ideologie.»

G.: È vero, la cosa terrificante dell’ideologia è che strappa l’identità da dentro le persone e la mette da un’altra parte, così il vicino di casa che magari ti vende il latte o il cugino con cui andavi a pescare è quello che poi ti spara perché ha abbracciato un’altra fazione. E questo è l’orrore vero, la cosa che è inconcepibile. E ancora più inconcepibile è quando finisce, perché poi questo incantesimo finisce, però le persone restano. Ci sono quelli che restano da una parte, che sono le vittime, ma ci sono anche quelli che sono stati carnefici, che restano e che comunque si portano dietro la responsabilità. Come se davvero fossero agiti e poi abbandonati alle conseguenze di quello che è un vero e proprio incubo, un’allucinazione. E nel tuo libro questo è reso benissimo. Però volevo chiederti anche di Redenta, perché si tratta di un personaggio particolarissimo, caratterizzato fisicamente in maniera molto forte ma che poi è un personaggio affascinante, nonostante la deformità, la… La menomazione. Come ti è venuta in mente? Lo so, è una domanda orrenda da fare a un autore, però in questo caso è inevitabile.

Nicoletta: «Guarda, lì il grande rischio, la grande sfida era quella di rifuggire il più possibile dal cliché. Cioè, a me serviva un personaggio fortemente stereotipato perché, in quegli anni, l’idea di donna era quella e io non volevo cadere nel cliché dell’eroina che si ribella.

Volevo mantenermi su una donna del tutto sottomessa, che però avesse anche delle zone di luce molto forti. E quindi ho calcato la mano sugli aspetti, come dici tu, di deformità e ignoranza costruendo una persona presa in giro da tutti, usata e abusata con una terminologia fortissima..

La chiamano la storpia, la scimunita, l’idiota.

Ho voluto che fosse un personaggio fortemente inviso agli altri, ritenuto marginale, per poi darle, invece, l’aspetto di umanità che abbiamo tutti nel cuore e che in lei emerge potentemente proprio per differenza. È una cosa che spesso emerge nelle persone umili, quel tipo di forza, quel tipo di grandezza. La sfida, per me, è stata quella di non renderla troppo vittima pur essendo del tutto soggiogata dal potere, sia quello maschile che quello del fascismo.»

G.: Ecco, una cosa che mi ha colpito è anche che lei, in realtà, la sua forza la trae dal fatto che  per i primi anni della sua vita, coltiva un segreto. Perché lei in realtà parla, in realtà capisce, non è scimunita, ma non lo dice a nessuno. E questa è una domanda magari un po’ Marzulliana ma, secondo te, il segreto, l’operare in segreto, l’avere un’identità propria che nessuno conosce, alla fine può essere una risorsa fondamentale, soprattutto per chi non ha nient’altro?

Nicoletta: «Indubbiamente. Guarda, io faccio una battaglia atroce contro quest’epoca della condivisione ad ogni costo. Prendi i social: nati per condividere tutto, più condividi meglio è.

Il mettere in piazza è percepito come valore e il segreto sempre più come disvalore, quasi come stigma. Bisogna dire e dare tutto di noi senza mai lasciare nascosta nessuna piccola parte di noi stessi. È un problema, un problema grave, perché appunto, come tu dici, l’umano ha valore nelle sue sfaccettature, nei suoi angoli segreti e preziosi, e ancora nella scelta di dare parte di noi stessi a persone diverse.

Anche Goffmann diceva che ci mostriamo a seconda di chi ci troviamo di fronte, il proprio professore, il genitore, il figlio. Su questo si basava la convivenza civile. Ora, invece, tutto si dà a tutti, e il segreto è andato un po’ a farsi benedire, ma è una risorsa, una risorsa fondamentale così come l’ascolto. Lei non parla ma, quando lo fa, lo fa volontariamente, volutamente, e ritiene che più della parola sia l’ascolto il vero valore, e anche questo purtroppo si sta perdendo.»

G.: La cosa che ho trovato geniale è che quando Redenta viene raccontata, e quindi non c’è il rapporto diretto con la realtà ma solo la narrazione che di Redenta fanno gli altri, lei diventa un’altra. Per Iris, che non la conosce, diventa la donna bellissima, fantastica, un’avversaria con cui è impossibile confrontarsi. E questo Delta tra le persone e la narrazione che gli altri ne fanno è interessantissimo e ci fa domandare quale sia poi la più vera delle due, la Redenta che noi leggiamo nel suo narrarsi o quella che percepiscono gli altri, diciamo intermediata?

Nicoletta: «L’identità umana è fatta da come veniamo percepiti dagli altri, quindi la stessa persona, per persone diverse, è diversa.

Qui ci sono dei punti focali forti e che riguardano entrambe le protagoniste, sia Redenta che Iris, anzi forse più quest’ultima, secondo me. Iris vista da Redenta, Iris vista dalla madre, perché la madre la vede come donna intelligentissima, votata al successo, Diaz la vede come la donna coraggiosa, Redenta come la donna perfetta, bellissima. E invece è interessante vedere come poi si vede lei, che è stato lo sforzo maggiore sul personaggio. Non che Redenta non sia sfaccettata, però Redenta non ha opinioni su sé stessa, non so se mi spiego, lei vive ai margini, non giudica nessuno.

Descrive gli altri, non descrive mai se stessa. E invece Iris è una che si interroga. È una che è particolarmente coraggiosa, non credo che si senta particolarmente bella, se non perché glielo dicono, però è interessante vedere come gli sguardi di tutti vengono poi raccolti dalla sua voce narrante, che è una voce narrante che pone tanti dubbi, più di quanto faccia Redenta, paradossalmente. È quella più sicura di sé, però è anche quella che mette in discussione quello che succede.»

Giovanni: Una cosa che ho scritto anche nella recensione è che in questo tuo romanzo ho trovato tanto del realismo magico, perché tu riesci a passare da un registro assolutamente materiale, terreno, nel qui e ora, a questo surrealismo senza soluzione di continuità, come se fosse la cosa più normale del mondo. Come in effetti è nella cultura popolare, quella del mago, del folletto, dell’erba della paura, che non so se c’era in Romagna, ma in Toscana sì. Ed è una cosa che si è persa. Dove l’hai recuperata questa voce? È la voce dei nonni?

Nicoletta: «Era il futuro, era… Ai bambini si parlava tranquillamente di morti, ora è tabù, i bambini non devono più parlare di morte. Possono magari guardare il telegiornale dove si scannano, però non si può parlare di morte.

Tutto questo processo di civilizzazione ha fatto sì che si perdesse fatalmente quel realismo magico che, hai detto bene, era proprio la parte fondante della società arcaica, non solo romagnola, ma proprio di tutt’Italia. E dove l’ho recuperata? Nella mia famiglia era molto sentita… da bambina ricordo benissimo la forte superstizione, la magia. Io ero circondata da persone che guarivano.

Mia nonna, che era madre di gemelli, si diceva che guarisse il mal di schiena, la persona doveva stendersi per terra e lei gli camminava davanti. Non erano dei folli, erano persone normali. Un’altra mia parente, una prozia, era nata col velo della Madonna e quindi faceva guarire dai porri. Ognuna aveva la propria specializzazione, come oggi d’altronde, no? E questo è, da un lato, divertente, dall’altro, narrativamente, capisci che è una miniera infinita di storie, di spunti narrativi incredibili, che permette di costruire quel mondo senza sforzo, anzi di rappresentarlo perché era davvero così. Lo sforzo è stato quello di fondere la parte più storica, più tragica, più realistica in quella dimensione di naturalezza che volevo riproporre con la sua fluidità.»

G.: Hai detto una cosa, secondo me, verissima, cioè il fatto che la morte è stata ospedalizzata, è uscita di scena e quindi è diventata oscena perché esclusa dalle nostre vite. Prima si moriva a casa, adesso ci sono i luoghi in cui si muore, ma lontano dalla famiglia, dal contesto. Si è rimossa l’idea, che invece nel tuo libro è ancora molto presente. La morte, la malattia, la deformità, sono tutte cose che, quando non vengono escluse dalla narrazione della realtà, sono in qualche modo anche meno impattanti. Sono la scarogna che può capitare e, quando capita, si fa spalluce e si va avanti. È un mondo più forte, quello che racconti, di quello attuale.

Nicoletta: «A me sembra un mondo meno forte perché magari ha meno mezzi, però è anche un mondo che ha le spalle molto più larghe del nostro per affrontare le difficoltà, superare un evento traumatico. Ecco, noi oggi lo usiamo a proposito questo termine abusato, resilienti. Una volta lo erano ma banalmente, perché avevano un’abitudine.

L’essere umano è un essere che procede per abitudine. Per esempio, i figli morti: i figli morti erano la normalità, quindi per quanto traumatico potesse essere quell’evento, alla fine veniva accettato come una parte normale. Lo stesso per la malattia, la povertà. Erano resilienti perché, giocoforza, dovevano affrontare una vita che era una vita durissima, rispetto alla nostra. Senza la scienza, senza la medicina. Senza gli antidolorifici. Pensaci, dal dentista, dal chirurgo, senza anestesia, per me erano generazioni veramente quasi sovrumane, ecco.»

G.: Sì, diciamo che sicuramente in quello che noi chiamiamo Occidente c’è una disabitudine al dolore, alla sofferenza di ogni tipo. Anche psichico. Oggi andiamo in crisi se non ci funziona internet per due giorni, insomma, lì si parla di cose un po’ diverse. E infatti una delle riflessioni che la lettura del tuo libro penso possa stimolare anche in altri, è quanto saremmo pronti oggi a un evento come quello che c’è stato durante il ventennio: a un totalitarismo. Quanto saremmo pronti a sacrificare, di quello che abbiamo, per stare in contatto con la nostra umanità? È una riflessione che viene da fare perché quelli che introduci sono tutti personaggi che hanno, come dire, dei confini morali netti, delle idee forti su quello che è giusto o sbagliato, quello che si fa, quello che non si fa. Che è una cosa che mi sembra meno presente oggi.

Nicoletta: «Io non credo che saremmo molto pronti ad affrontare un regime, per il semplice motivo che la società di oggi è la società dell’edonismo, è la società che fa di temi come la libertà di scelta un valore ma sono il marketing e la grande industria a imporcelo.

La libertà di scelta è diventata a sua volta una dittatura ma non capisco molto i nostalgici in genere, perché oggi nessuno vorrebbe essere obbligato ad andare al dopolavoro invece di scegliersi i film su Netflix.

C’è chi rimpiange l’uomo forte, Dio Patria e Famiglia, ma mi sembra un mondo così distante che non so quanto chi lo evoca lo capisca davvero. La privacy, ad esempio, non esisteva, oggi la privacy è un valore, magari più fittizio che reale, ma un valore assoluto. L’edonismo, la libertà di scelta, il potersi determinare come individui… Quindi mi fa un po’ sorridere, ripeto.»

G.: Quali sono gli autori a cui hai pensato quando scrivevi I giorni di Vetro?
Fontamara di Ignazio Silone - Nicoletta Verna ne parla a ilRecensore.it

Nicoletta: «Allora, tantissimo a La Storia di Elsa Morante, che è uno dei miei libri preferiti, poi tanto Fenoglio, tanta Viganò, l’Agnese va a morire, e poi sai cos’è stato bello? Rileggere i grandi classici.

Fontamara, ad esempio, io non l’avevo più letto dopo le scuole medie ma volevo che Castrocaro somigliasse un po’ a Fontamara, e quando l’ho riletto mi ha sconvolta. E’ un capolavoro. Io lo ricordavo molto bello, però come può amarlo una bambina di 12 anni che coglie alcune cose, ma non ha magari quella maturità. Meraviglioso.

Ho riletto Rigoni Stern.  Calvino, no, l’avevo riletto anche negli anni, ma ritrovare questi libri qua è stata davvero una gioia, un godimento assoluto. Poi ovviamente tutte le lettere di Nuto Revelli, dei soldati dal fronte, e qui c’è tantissimo davvero da poter, come dire, tirare fuori e ispirarsi.»

G.: Quindi diciamo, a chi ha amato I giorni di Vetro, cosa consiglieresti di leggere, oltre a questi?

Nicoletta: «Allora, secondo me questo è un libro estremamente avventuroso, è un romanzo di trama in cui poi c’è anche un aspetto storico, politico. Quindi consiglierei quei libri a tutta trama, mi vengono in mente Franzen, Eugenides, che poi loro sono dei mostri della letteratura e io no naturalmente, però c’è questa passione per la trama, per l’intreccio, per l’intrigo che forse è anche il motivo per cui sono i miei scrittori preferiti.»

G.: È vero, c’è questo aspetto, è un libro che ti trascina molto, ti impedisce di metterlo giù. È anche un po’ la sua forza, perché poi ci sono dei passaggi che sono terribili e, a un certo punto, diventa davvero quasi un horror. Lì, quando lo scrivevi, ti sei chiesta se fosse un po’ troppo, se stessi correndo il rischio di perdere lettori?

Nicoletta: «Io, devo dire, nel momento della scrittura non me lo sono tanto chiesto, ma se l’è chiesto, questo sì, la mia editor, Rosella Postorino.

Lei mi ha proprio detto “Noi qui il lettore lo perdiamo” e io le ho risposto che non sarebbe successo, che le signore anziane ne hanno viste più di noi e quindi sarebbero state le più tranquille, secondo me. La regola che ci siamo date, nella fase di editing, è che questa non dovesse essere una violenza estetizzante, gratuita, pornografica e quindi sì, siamo intervenuti su alcune scene, limando, lavorando per sottrazione. Le scene sono rimaste quelle che erano però, in effetti, in una prima versione c’erano delle torture forse troppo ricche di particolari…»

G.: Sì, ho fatto caso al fatto che le torture non sono mai descritte, cioè tu parli degli attrezzi, parli delle ferite ma poi il dettaglio di quello che succede non lo racconti, sei stata molto attenta a non andare nel dettaglio eccessivo, morboso.

Nicoletta Verna: «In una primissima versione alcuni dettagli in più c’erano ed in effetti, sì, ripensandoci ora, erano forse un po’ gratuiti, tanto si capisce lo stesso. Ecco perché l’editing è fondamentale. A me però non interessava il dettaglio, lo splatter che infatti abbiamo sottratto, ma che emergesse con decisione e senza ombra di dubbio l’estrema ferocia e crudeltà di quello che è Vetro. Volevo che emergesse il dolore fisico, se poi avessi perso lettori, pazienza.»

G.: Anche sulla storia d’amore c’è una domanda che vorrei farti, perché in realtà c’è moltissimo anche di questo, c’è un amore molto forte. Oggi siamo abituati all’idea che amare e essere amati sia un po’ un diritto mentre invece, avendo Redenta come protagonista, che è un personaggio che all’amore, come dire, sembra non essere destinato, il fatto che ci sia una storia così complessa e di non scontata soluzione è anomalo ed è molto interessante. Anche la storia di Iris è così, c’è un amore che poi alla fine non è mai l’amore romantico. Secondo te, quella dell’amore romantico è una caratteristica moderna?

Nicoletta: «Beh no, direi che l’amore romantico è una caratteristica eterna, abbiamo anche opere molto antiche che ne fanno il centro. Il rischio dell’amore romantico è che diventi un cliché, forse perché sono ossessionata dalla paura che la scrittura diventi retorica, per me è un incubo e quindi anche sull’amore romantico avevo paura di raccontare una storia retorica e forse anche per questo, per superare questa dualità classicissima amore-guerra, ho enfatizzato questa dose di irrazionalità che è propria dell’adolescenza, un’età così difficile in cui lei si trova a dover gestire questi sentimenti così feroci, così parossistici all’interno di un contesto di guerra. Di guerra civile anzi, quella che dicevamo prima, dove davvero da un giorno all’altro i fratelli, gli amici diventano avversari. E quindi non serviva aggiungere molto altro perché un amore adolescenziale in un’ambientazione che non lo è affatto, già di per sé è estremizzante.»

G.: La domanda finale te la faccio, inevitabile, su cosa stai lavorando adesso, per quello che si può dire?

Nicoletta: «Non ho fatto niente, per un bel po’, questo è stato un lavoro molto gratificante ma molto faticoso e ora ho proprio bisogno di un momento di riposo.»

G.: Quanto ci hai lavorato, se posso chiedertelo?

Nicoletta: «Alla fine non tantissimo, la prima versione era un raccontino che ho scritto più di vent’anni fa, però il lavoro vero e proprio mi ha impegnata negli ultimi tre, quattro anni, non di più. Ovviamente lavorandoci nei fine settimana, la notte…»

Giovanni: Tu hai un rituale, una consuetudine o riesci a scrivere sempre e ovunque?

Nicoletta: «Ovunque, non perché lo scelga ma per necessità: io devo scrivere nei ritagli, e i ritagli sono… quando il mondo dorme, ma veramente.

Addirittura gran parte di questo romanzo è stato scritto con le cuffiette nelle orecchie e dentro il rumore della pioggia che cade, a tutto volume per riuscire a concentrarmi con intorno i figli, i rumori di una casa normale, la televisione. Poi con il rumore della pioggia ho dovuto smettere perché finiva che dovevo andare in bagno ogni cinque minuti e adesso uso un brusìo che sembra il forno a microonde e che si chiama rumore bianco.

Se ci pensi sono scenari anche divertenti, io quando da piccola pensavo al mito dello scrittore avevo in mente tutt’altro, le montagne, l’isolamento, invece per me è stato qualcosa di molto prosaico: sull’autobus, in macchina se guida qualcun altro… In treno, il treno è un grande lusso, un’ora e mezzo di treno, col banchettino davanti… Stupendo.»

Nicoletta, è stato davvero bello poter fare questa chiacchierata con te e speriamo, cuffiette o no, di poterti rileggere prima possibile.

Un grande abbraccio da tutti i nostri lettori e dalla redazione de ilRecensore.it!

A presto!

Autore

  • Giovanni

    Scrittore, fotografo, Service Manager in una delle principali Software House italiane, è stato cofondatore del Blog Thrillerlife ed è socio fondatore della associazione culturale IlRecensore.it e della omonima rivista online.

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