Il mio Salone quest’anno inizia all’insegna dell’incertezza e di una programmazione che si adegua alle esigenze esterne: la promozione del libro con una intervista da registrare il giorno prima, il viaggio con il mio amico e coautore Mirco, un firmacopie confermato all’ultimo minuto e tanti, tanti eventi, presentazioni, interviste, interventi a cui avrei voluto assistere e tra cui purtroppo occorre scegliere.

Finita l’intervista e la presentazione di giovedì faccio in tempo giusto a tornare a casa e preparare la borsa che dopo qualche ora di sonno è ora di partire. Firenze-Montecatini-Moncalieri non è proprio velocissima ma il piede è pesante, la disciplina ferrea e ricordando i Beastie Boys di “Don’t stop ‘til Brooklyn” pongo il veto ad ogni ipotesi di sosta e riusciamo ad essere al Lingotto in orario. Più complicato risulta trovare parcheggio ma, alla fine, riusciamo a inventarci uno spazio nell’ultimo dei luoghi possibili. Salone, ci siamo!
La presentazione di Massimo Carlotto e Piergiorgio Pulixi, ad opera di Stefano Nazzi, è cominciata da pochi minuti ma la meravigliosa redazione è già lì e ci ha preso i posti!
Ritrovare di persona Patty, Titty e Alessandra è una gioia immensa: questa redazione distribuita sul territorio è fantastica e ci permette di fare tante cose ma, a volte, il desiderio di uno spazio fisico in cui far crescere le nostre idee fa capolino. E chissà che prima o poi non trovi anche un compimento.
Massimo e Piergiorgio sono rodatissimi e Stefano Nazzi è davvero bravo nel proporre domande coinvolgenti e mai scontate.
Una in particolare mi colpisce: “Qual’è una parola che odii e che non useresti mai in un tuo libro?“, chiede. Alla fine è Piergiorgio a raccontare della volta in cui Carlotto, intervenendo sul suo romanzo d’esordio, gli aveva cassato un temerario “coacervo”: il pubblico si diverte e la tentazione di farne una maglietta, di quella parola evocativa, è forte. Magari lo faccio davvero.
Il resto è un carosello: del firmacopie allo Stand Feltrinelli rimane l’immagine della fila lunghissima di adolescenti in coda per farsi firmare la loro copia di Ansia e Panico della bravissima Cecilia Cantarano, seduta accanto a noi: si scrive per comunicare e ho sempre avuto il massimo rispetto per chi riesce a fare numeri, ad essere popolare nel senso più nobile del termine, quindi un plauso a chi ha saputo trovare una chiave geniale per comunicare con i sedicenni di oggi.

E poi la gioia di rivedere Orso Tosco nella inusuale veste di presentatore, prima in compagnia di Romano de Marco, che torna al romanzo dopo anni di assenza con Dimenticare Milano, e poi con la coppia Paolacci e Ronco che con Rosso Profondo esordisce nel True Crime con un piglio intrigante. È la prima lineup della neonata Ubago Press, prova tecnica di fusione tra Nottetempo e 66th&2nd, a cui a Settembre si aggiungerà un giallo dello stesso Orso che, in questa occasione, si prenderà una vacanza dal suo fortunato Pinguino.
La seconda presentazione è di Vins Gallico che con Onda Calabra firma per Fandango un romanzo che suona interessante e che spero di poter recensire presto, insieme agli altri.
Il tempo di un respiro, di una risata, di uno sguardo un sorriso una stretta di mano una promessa e il Salone sembra già finito. Un vortice, forse. Una magia, di sicuro.
Ma il Salone, poi, finisce davvero?
Al Salone ero stato una volta sola, anni fa: dovevo presentare insieme a Mirco il nostro romanzo d’esordio, scritto sotto pseudonimo per un editore così piccolo che al Salone lui, l’editore, non era mica venuto e, a dirla tutta, non c’era neanche il libro, che non avevano fatto in tempo a stamparlo e noi lo avevamo scoperto il giorno prima della partenza, che avremmo dovuto presentare un libro che non c’era.
Alla fine avevamo fatto le corse, la mattina presto, per trovare su internet una copisteria aperta a Torino e disponibile a stamparci cinque copie al volo di quel romanzo di seicento pagine con la copertina a colori, rigida. E lì, seduti di fronte allo stand di Fastbook che lo distribuiva, con quelle cinque-copie-cinque in mano, parlando a un pubblico che passava sovrappensiero e si fermava solo per riposare i piedi, eravamo comunque felici. Una di quelle cinque copie la conservo ancora.
Girando per i padiglioni, quella prima volta, ero tornato bambino, perso in un immenso parco giochi. Di questo mondo non sapevo nulla, se non che volevo starci dentro. Oggi so davvero poco di più, ma quel desiderio è rimasto intatto.
In questi anni, però, ho avuto la fortuna di conoscere tante persone, tutte accomunate dall’amore per i libri e dall’identico desiderio di stare, in qualche modo, in questo castello che è fatto di carta ma in fondo così facile da far crollare non è, con buona pace di chi, forse, di tutto questo magari farebbe volentieri a meno.

In questa giornata piena, spalmata su quarantotto ore, è stata questa la cifra ricorrente, per me: la meraviglia straordinaria di incontrare occhi, sorrisi e mani di persone che per almeno un anno sono state solo un avatar su Facebook o Instagram, un indirizzo su una mail, tutt’al più un messaggio whatsapp.
Dare corpo a quelle voci, scambiarsi saluti, abbracci, idee, promesse di collaborazione, desideri, auguri, straordinario quanto sia banale dirlo, è una emozione grande, ogni volta.
I numeri parlano di 230mila visitatori, quest’anno.
Una città, quella del Salone, più o meno delle dimensioni di Bologna: un paesone in cui i gradi di separazione si riducono e si finisce per conoscersi in tanti, se non tutti, salutandosi a volte con entusiasmo a volte semplicemente perché si sa di essersi incrociati altrove senza riuscire a inquadrare bene né il quando né il dove.
E a me che sono un ingenuo sembra meraviglioso, davvero, che sia questo paesone qua, che al Salone si trova e si saluta, si stringe la mano e si celebra, si fa i dispetti e monta polemiche, quello che in Italia manda avanti tutta la filiera dei libri che, per me, sono la Cultura, quella con la C maiuscola.
E mi commuove davvero, mi piace, persino nei dispetti e nelle polemiche, in chi dice che non serve a niente e in chi parla di crisi, che di crisi poi io ne sento parlare da tutta la vita, mi piace, dicevo, che sia così: che ci siano gli editoriali e gli scazzi e le piccole faide e le polemiche che durano lo spazio di un giorno. Perché vuol dire che questa, la nostra, è ancora una città viva, una città vera fatta di persone che possono piacerci o meno ma che ogni giorno, sudando e sorridendo, inventando storie e incazzandosi, mandando mail e facendo polemiche, tengono in piedi questa baracca qui che io, che sono sopra ogni altra cosa un lettore, se non ci fosse, non lo so mica se saprei come fare, ad essere felice.