Mie magnifiche maestre di Fabio Genovesi: una dichiarazione d’amore che diventa letteratura
SINOSSI
Isolina ha salvato il suo matrimonio la notte in cui ha piantato una falce nel fianco di suo marito. Benedetta era la più bella della spiaggia, ma piuttosto che diventare Miss Cuore di Panna ha preferito darsi alle droghe pesanti. Con Gilda i funerali diventavano feste di compleanno. Azzurra a scuola aveva il Sostegno, ma era lei a non sostenere la banalità degli altri. Poi Irene, la migliore amica dei bambini piccoli e dei mostri giganti. E Violetta, troppo impetuosa per il suo fisico massiccio, che trasformava ogni abbraccio in una frattura.
Anime intense e fiammeggianti, riunite in una sola, clamorosa famiglia. Non di quelle rigide, basate sul sangue, ma più libera e ariosa, tenuta insieme dalla colla calda dell’amore. Sono le zie e le nonne di Fabio, che questa settimana compie cinquant’anni, anche se nessuno ci crede e lui meno di tutti. Allora queste donne magnifiche vengono a trovarlo.
Vengono nei suoi sogni, perché sono morte.
Ma se c’è una cosa che gli hanno insegnato è che i sogni non sono la fine della realtà, come la morte non è la fine della vita. In realtà gli hanno insegnato molto altro, solo che Fabio era troppo piccolo per apprezzarlo. Tutto preso a seguire i suoi zii marinai e avventurieri, grandi maestri di vita “maschia” quando lui un maschio cercava di diventare.
Adesso però è un tempo diverso, e tornano da lui le diverse lezioni delle zie. Silenziose e insieme così forti, sagge e folli, divampano nelle sue notti. Ognuna un sogno, un ricordo e una scoperta, una stella trascurata che torna a luccicare. Ma perché tornano tutte adesso, a una settimana da un compleanno che lo stranisce?
Vogliono solo salutarlo, o c’è qualcosa di più importante che deve sapere, qualcosa che deve fare per conto dell’Aldilà? Con la sua voce unica e inconfondibile, Fabio Genovesi torna in Versilia per raccontarci delle sue maestre. Sua madre, sua nonna, le sue zie e le loro amiche, donne che non hanno scalato l’Everest o scoperto la penicillina, ma hanno saputo disegnare portenti che la Storia non ha registrato perché le manca la sensibilità.
Donne che nelle loro vite ingarbugliate non hanno fatto grandi cose, ma hanno fatto cose grandi. E non smettono adesso che sono morte: eccole tornare nei sogni quando c’è bisogno di loro. Perché niente finisce morendo, niente sognando: tutto è sempre vero, e sempre vivo.
Brucia e scintilla in queste magnifiche maestre, nelle lezioni che ci donano, e dentro di noi.
RECENSIONE
“niente finisce morendo, niente sognando, tutto è sempre vero, e sempre vivo”
Fabio Genovesi, ci insegna che la memoria non è un archivio, ma un organismo vivente. Un alveare pulsante di voci, di odori di pineta e sale, di sogni dove il passato non riposa ma ritorna, con il passo lento e devoto delle donne che lo hanno cresciuto. La loro forza non è gridata: si manifesta nella capacità di esserci, anche oltre la morte.
Mie magnifiche maestre è un libro che chiede silenzio, tempo, ascolto. Chiede lettori che sappiano rallentare, come ciclisti d’altri tempi, capaci di sentire la fatica della salita e la bellezza dell’aria che cambia a ogni curva.
Genovesi non firma un’autobiografia, ma un atto d’amore narrativo.
Non c’è eroismo urlato, nessuna santificazione. Le sue “maestre” — zie, nonne, donne di mare — non insegnano a parole, ma per esempio. Alcune sono vere, altre forse sognate, tutte però reali come i ricordi che riaffiorano senza permesso e con forza.
Fabio Genovesi non scrive su di loro, ma con loro. Le lascia parlare, le sogna, le ascolta.
“Questa è la storia delle donne di casa mia e della settimana in cui sono tornate per raccontarmela”
La sua Versilia diventa luogo di rivelazione, come la Macondo di García Márquez o la Patagonia di Sepúlveda: un piccolo mondo in cui la vita accade in tutta la sua stravagante, struggente verità.
Nel tono, Mie magnifiche maestre richiama L’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio, L’acqua del lago non è mai dolce di Giulia Caminito, ma anche certi slanci affettuosi e malinconici di Annie Ernaux. Eppure Genovesi resta sempre fedele alla sua voce: ironica, musicale, intima.
La prosa — musicale, ironica, sempre affettuosa — nasce dalla voce: come ha detto lui stesso durante la rassegna “Due parole in riva al mare”, i suoi capitoli sono come canzoni da far “ballare in bocca”, riletti ad alta voce finché non suonano bene.
Come nella sua narrazione del Giro d’Italia, la sua scrittura pedala piano, senza forzare. Non punta al traguardo, ma all’andatura. Non cerca la vittoria, ma il gesto che resiste.
Qui la letteratura diventa artigianato emotivo, una bicicletta su cui salire anche quando non si sa dove si sta andando. “È il mestiere più libero che esista”, dice lo stesso autore.
E si sente: c’è nella sua scrittura la gioia di chi ha trovato una lingua che gli somiglia, fatta di parole sgrammaticate dall’amore, smontate dalla retorica, ma ricche di senso.
“Le cose precise, le cose perfette sono finte, sono bugie. Quel che è vero, quel che è intenso, non è liscio né preciso, ha le grinze e traballa danzando, ma danza”
Le figure femminili che abitano il libro — da zia Gilda, che lo portava ai funerali come scuola di empatia, a Isolina, che brandisce una falce per salvare il proprio matrimonio — sono gregarie della sua esistenza.
Senza di loro, suggerisce Genovesi, lui non sarebbe mai arrivato alla meta. E qui si avverte il paradosso potente di questo romanzo: non c’è alcuna celebrazione delle “grandi vite”, eppure ogni pagina racconta un’epopea. È letteratura che restituisce dignità al quotidiano, eroismo alla fatica nascosta, eternità alla presenza muta di chi c’era sempre.
Come accade nei romanzi che scavano nella propria storia per toccare quella di tutti — si pensi a Patria di Aramburu —, anche qui il privato diventa coro. Ogni lettore riconosce una nonna, una zia, una voce amata e perduta che continua a dire “vai, ci sono”.
Nel libro compare anche la figlia mai arrivata: una pagina di rara delicatezza, un’assenza che diventa forma, un punto fermo intorno a cui ruota il significato più profondo del romanzo. Non si finisce di crescere, sembra dirci Genovesi, ma si può imparare a restare fedeli a ciò che ci ha insegnato a essere umani.
Se c’è una cosa che Mie magnifiche maestre ci insegna è che raccontare è un modo per dire grazie.
È per questo che, alla fine, non resta la nostalgia, ma la gratitudine. Per chi ci ha insegnato a pedalare anche quando la strada sparisce. Per chi ci ha guardati cadere senza giudizio. Per chi ha sognato per noi, prima ancora che potessimo farlo da soli.
Alla fine, non si tratta solo di raccontare delle donne che ci hanno insegnato la vita. Si tratta di continuare a portarle con sé. Di restituire loro lo spazio che meritano. Di dire grazie. E di farlo con una scrittura che abbraccia come un ricordo buono: quello che non svanisce, quello che consola, quello che resta.
Come ha detto lo stesso Genovesi: “L’amore che provi per qualcuno è la sua vera eternità. Ed è anche la tua.”
Ecco, Mie magnifiche maestre è questo: un gesto eterno d’amore. Un libro da leggere ad alta voce. Come si fa con le storie che non vogliamo dimenticare.
“Mescolando ricordi e sogni, memorie e desideri, in un unico ballo che ci porta via con sé”
TITOLO: Mie magnifiche maestre
AUTORE: Fabio Genovesi
EDITORE: Mondadori
GENERE: Memoir, romanzo autobiografico
AUTORE

Fabio Genovesi è nato e vive a Forte dei Marmi.
Tra i suoi romanzi Esche vive, Chi manda le onde, Il mare dove non si tocca, Cadrò, sognando di volare, Il calamaro gigante e Oro puro.
Collabora con il “Corriere della Sera”, ed è la voce “culturale” delle telecronache Rai al Giro d’Italia.