Tappini!

Da bimbo mio babbo mi mandava a comprare le sigarette – ms – in carcere. Il carcere è a cinquanta metri da casa mia. E mio babbo usciva alle due dal lavoro, per quello trovava sempre i tabacchini chiusi. Quello volterrano è stato un carcere di massima sicurezza, c’era gente piuttosto pericolosetta, dentro. Tipo una volta si giocava a tappini vicino all’ingresso e scese da un furgone, scortatissimo, Mario Tuti, che fece il saluto romano con le manette ai polsi. Di fronte a noi bimbi. Povero Mario. In tutti i sensi possibili. Un’altra volta si vide Enzo Tortora, che ci misero dieci anni a capire che era un omonimo. Lui non fece il saluto romano. Era quieto e remissivo. Noi si giocava sempre a tappini. Io delle volte ci gioco anche da solo, a tappini. Io con i tappini ci faccio l’amore. Adesso scrivo anche il prossimo pezzo e l’attacco qui: parla di tappini.
Tappini.

Ti sento. Sento il rumore delle tue mandibole, i denti che affondano nelle fette biscottate, lo sgranocchiare incessante, i semini di soia che fanno il giro della tua bocca e scendono giù, verso il buco del culo. Mangi, mangi in continuazione, sei vegetariano e mangi molto di più di noi onnivori, ti mancano le proteine nobili e compensi con chili e chili di roba di soia, di avena, di tofu, seitan, orzo, farro e altre diverse vittime della fotosintesi clorofilliana. Mastichi, mastichi, mastichi. Dici che la fame non ti passa mai, che non ti senti mai sazio, che hai disturbi di vario tipo legati all’alimentazione: al lavoro tocca cucinare per te cose particolari, pure semplici, ma particolari, il che significa lavoro in più per chi lavora in cucina. E io lì, per l’appunto, lavoro. Poi, magari, esci la sera, e vai a mangiare quei carboidrati – la pizza, il panino, la pasta – che al lavoro non puoi mangiare: devi osservare una dieta strettina, al lavoro. Fuori no, fuori ti ingozzi di gelati, caramelle e cotillons. Ti siedo accanto e tu guardi nel vuoto e mastichi, crunch, crunch, crunch. Intolleranza, fastidio, repressione di un istinto direi quasi violento. – Vado a fumare una sigaretta in camera. – Si sente lo stesso, il fumo. Mi intossichi. – Va bene, vado fuori. (Però la sera, spesso, chiedi un po’ di tabacco, e ti giri una sigaretta, e la fumi beato al tavolo di sala. Quindi ti danno noia le MIE sigarette, non le TUE – che poi sarebbero MIE anche quelle).

Ci vuole pazienza, al mondo.

Piove a dirotto, tuoni, lampi, fulmini, scrosciare di fiumane d’acqua tra gli avvallamenti del green, la fine del mondo è vicinissima. In giro – son le sei del pomeriggio – non si vede nessuno: solo, a guardar bene, una macchia viola e bianca in lontananza, nei pressi della buca sedici – è un uomo, non più giovane (ha cinquantotto anni, lo sappiamo perché noi siamo onniscienti), indossa una tenuta bianca da cuciniere con sopra un lungo grembiule viola cardinalizio: balla, fradicio zuppo, e dai movimenti delle labbra si capisce che canta e salta sotto la pioggia che non è pioggia, è il cielo che viene giù, è l’universo intiero che si è fatto acqua e cade a grosse gocce, grosse come palle da golf.

Il tizio non smette di ballare e cantare (è anche scalzo) e ora sventola un foglio, e piange a dirotto – tanto nel diluvio non si vede – e ora sventola un foglio, si diceva, che sembra un contratto di lavoro (lo è: valga la nota sopra circa l’onniscienza), e piange e piange ancora a singhiozzoni rotti a strappo perché a cinquantott’anni, per la prima volta in vita sua, su un foglio, nero su bianco, c’è scritto che ha diritto alla tredicesima, alla quattordicesima, al TFR, che dovrà lavorare quaranta ore perché per quelle è assicurato, e se ne farà di più avrà diritto agli straordinari. Fine.

TITOLO PROVVISOR

Così, su due piedi, non saprei dire cosa ne penso esattamente, sono un po' confuso, un tantinello frastornato: diciamo che i pensieri mi si accavallano uno sull'altro come le onde del mare in aprile, oppure in dicembre, Gennaro. 
Un Gennaro del quale mi ricordo benissimo è senz'altro Gennaro Caccavale, un tizio di Nola che conobbi ad Atene, sul traghett

Anche per l'Elba, mi ricordo, prendevo il traghetto, a Piombin

No, davvero, si fa per dir

ANADIPLOSI

Si senton le voci, in questa casa, la notte – di tutte le persone che qui han vissuto, che qui son morte. Stanotte la Tosca, che qui abitò fino al sessantanove, mi ha raccontato come faceva i tortelli di zucca. I “Brutti di zucca” come li chiamava lei, conditi con seppie e piselli di stagione, una cosa che si scioglie in bocca, che lascia un buon sapore per giorni, la noce moscata sotto il dolce della zucca, arrotondato il tutto dal salato anche lui dolciastro della seppia e infine i piselli, che sfumano verso il sublime, il notariato, l’otorinostalgia. Mi raccomando il soffritto, con gli scalogni – mi sussurrava la Tosca in sogno – no la cipolla, che è marrana e fotoirsuta oltre ogni dire. Ho detto: scalogni, e basta così, che non ho tempo per returuzzarsi addirivienga. E poi lo sformato di gobbi, che si chiamano così, i gobbi, perché son cardoni – cardoni – che vengono fasciati con carta di giornale e piegati in giù (“gobbi”) e ricoperti di terra: in modo che rimangan belli bianchi e un po’ meno amari di come sono al naturale. Dopodiché l’anadiplosi imperante soprattutto in Moldavia, fa si che la monda, la pulitura del cardo sia in effetti una palla sì disumana, che ti rimangon le unghie nere per mesi, e poi dentro ci trovi le forbicischie e anche, talvolta, la puruletia videns – un caromastro nativo di Fonte all’Agnello. E poi basta.

Più. Nulla. Di. Nulla.

SOFFRITTO A FUOCO

Perdonami l’invadenza: credo che anche prima di vedere ci sia altro. Intuire, forse: magari percepire. Contenere? Avverto la realtà, o quel che se ne dice – se ne benedice, se ne maledice. Annuso il vero, di ginepro, di alloro, di mirto e pepe nero: di salvia, di rosmarino e timo. Il vero è un soffritto a cuor leggero. 

La guerriglia del cuoco. 

Un soffritto a fuoco.

PORO DANTE

Non mi ricordo più dove ho letto che la famiglia di Dante era proprietaria di più di venti poderi. Credo che la mezzadria fosse di là da venire, quindi i mezzadri erano forse quartadri, sestadri: diciamo che per una quindicina di ore di lavoro al giorno - di tutta la famiglia, compresi gli embrioni - quindi al netto del Contratto Nazionale Giornaliero (facciamo undici anni di lavoro di un parlamentare odierno), toccava loro un chilo di merda di capra, perché le capre ci danno sotto col sale, e il sale valeva un botto, più un sacchetto di juta di strigoli sfioriti, tre cacarelli di lepre a mo' di spezie, e sei moggi di grano, preziosissimi - perché servivano ad adescare l'unica proteina concessa all'alimentazione del contado: il topo. Il topo si mangiava la domenica sul presto, perché così si aveva modo di godere dei preziosi ruttini che venivano a gola nel corso della giornata. Un po' come si fa oggi coi tartufi. Povero Dante, quant'ha patito. Chissà Catone le centinaia d'ettari: poro Catone. Quasi vien da chiedersi se il Vanni - Fucci - Bestia - non avesse anche un qualché di ragioni.

Autore

  • Francesco Simoncini

    Nasce, io, a Volterra, Pisa, Toscana. Riesce, sempre io, a diplomarsi a stento in ragioneria. Si iscrive a Lettere a Pisa, ma forse avrebbe preferito Testamento, o al limite Fare. Non si laurea affatto, perché intorno ai venticinque anni si trasferisce a Berlino, ci rimane tre anni, e a cinque esami dalla laurea smette di studiare. O bravo. Comincia a girare per ristoranti e bars, cameriere, cuoco, commesso, giardiniere, imbianchino, falegname, manovale e scrittore dalle sei a mezzanotte. Fa anche il libraio, a Pisa. Attualmente vive di sussidi vari e lavoretti saltuari. Un pezzente, per farla brevina. Spera, anche per quest'anno, di trovare un lavoro stagionale in un qualche ristorante sulla via del mare. Ma si accontenterebbe anche di un camerierato ai piani in uno dei settecento alberghi dei dintorni. Mi dimenticavo: è tornato, io, a Volterra nel 2001, dopo aver vissuto a Berlino, ma s'è già detto, poi a Pisa, a Livorno e anche in altri posti che ora, io, non si ricorda. E' nato il 4/10/66, per S.Francesco. Ha quindi cinquattotto anni, anzi no, cinquantasette e quattro mesi. Grazie. Ma grazie di che?

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