La fame del suo cuore: quando uccidere è l’unico modo per sopravvivere
SINOSSI
«Non ho mai ucciso né donne, né bambini, né uomini giusti. Sono innocente». La voce di Alexe Popova è ferma. Il corpo minuto chiuso nell’abito nero, la treccia screziata di bianco avvolta attorno al capo, lo sguardo feroce inchiodato in quello del giudice che la incalza, in cerca di un barlume di pentimento. Trecento uomini uccisi crudelmente, secondo la Legge. Trecento donne riportate alla vita secondo Alexe Popova, che di quelle creature indifese si è sempre sentita madre. L’ostinazione nel restare fedele ai suoi princìpi e nel dichiararsi innocente nulla può contro le prove a suo carico, contro l’opinione pubblica e la folla, assiepata di fronte al tribunale di San Pietroburgo, che grida la sua sentenza: «Al rogo la strega!» Così, di fronte al plotone di esecuzione, in un gelido mattino del 1909 si chiude uno dei casi di cronaca più clamorosi della Russia zarista; così muore l’assassina di Samara, che in quella cittadina adagiata sul Volga si è macchiata di un numero disumano di delitti: un’autentica strage. Dietro la maschera altera di Popova deve, tuttavia, nascondersi un mistero. È soltanto una pazza criminale o una donna traumatizzata da un’infanzia di soprusi? Oppure un angelo vendicatore che ha scelto di risparmiare ad altre la vita che le è toccata in sorte?
RECENSIONE
Nico: Alessandra Ossorio ci consegna una storia che va ben oltre la semplice narrazione, oltre la resilienza e la sorellanza. Limitarsi a queste due tematiche sarebbe riduttivo, perché l’autrice ci spinge in un confronto ineludibile con la nostra coscienza, a interrogarci sui valori che ci guidano e sulle scelte che definiscono il nostro percorso. Un romanzo che è un affresco di dolore e di rinascita, di un’esistenza straziata, un mondo di privazione e brutalità. Una storia vera, un dramma umano profondo. Ancora, purtroppo, una ferita aperta. Il contesto storico degli inizi del ‘900 dipinge un quadro desolante per la condizione femminile, soprattutto quella più umile.
L’analfabetizzazione era imposta, donne con un’esistenza segnata dalla dipendenza e dalla privazione di ogni diritto fondamentale. In questo scenario di profonda ingiustizia, l’interrogativo che dovremmo porci è moralmente complesso, come dobbiamo chiamare una donna che uccide per salvare altre donne?
Giovanni: Hai ragione, l’interrogativo morale è complesso e universale, al punto che si potrebbe chiedersi, uscendo dai confini del genere, quand’è che l’omicidio, il linciaggio, la vendetta personale siano moralmente accettabili o, di fatto accetttati nel contesto storico. Mi viene in mente il linciaggio di Claude Neal nel 1924, o il linciaggio di 11 italiani a New Orleans nel 1911: in questi casi la giustificazione morale fu razziale ma in Italia, fino al 1981, ci siamo tenuti nel codice penale il delitto d’onore, che prevedeva pene risibili per l’uomo che uccidesse la moglie in conseguenza di un tradimento o persino di uno stupro.
Nadezda racconta la sua vita fatta di miseria e violenza domestica, ed in questo scenario avvilente si inserisce un raggio di speranza, la figlia di 6 anni, il suo “grillo parlante”, che risveglierà, in ultimo, la coscienza della madre.
È proprio in questo sfondo di disperazione silenziosa che si introduce l’elemento catalizzatore della trama: Popova. Un punto di svolta che cambierà irrevocabilmente il corso delle vite di Nadezda ed Elena. La sua influenza è ambivalente, portatrice sia di speranza che di oscuri presagi, “nel bene e nel male”. Tale dualità aggiunge un dilemma alla trama, suggerendo che il cambiamento, per quanto desiderato, porta con sé un prezzo da pagare. E Nadezda sceglierà.
Nadezda è la voce scelta dall’autrice. La narrazione si distingue per la sua diretta semplicità, l’assenza di “niente di inutile” rafforza il senso di necessità e di realismo, focalizzando l’attenzione sull’essenza della vicenda.
Unico appunto, un linguaggio in alcune parti dissonante, molto contemporaneo, con espressioni e modi di dire che faticano a trovare una collocazione plausibile in una storia ambientata nella Russia degli inizi del ‘900, raccontata da una contadina. Ma questo è il mio punto di vista.
Fin dalle prime pagine, il lettore è immerso nel mondo interiore di Nadezda, nella sua confessione che ci guida attraverso gli eventi che hanno segnato il suo destino e quello di Popova.
Seguendo il prospettivismo nicciano “Non ci sono fatti, solo interpretazioni”, dobbiamo riconoscere l’assunto come particolarmente vero quando ci si immerge in storie così difficili, in testi che scavano nelle profondità della percezione, della memoria e della giustizia.
Le mie considerazioni, l’avvocato del diavolo.
Popova, UNA DONNA “GIUSTAMENTE” ASSASSINA?
ORAZIONE FUNEBRE DI POPOVA
“Sono venuto a seppellire Alexa, non a farne l’elogio. Il male che un uomo fa gli sopravvive, il bene, spesso, resta sepolto con le sue ossa. E così sia di Alexa Popova.”
(L’orazione funebre di Giulio Cesare. W. Skakespeare, Giulio Cesare, atto III scena 2)
La questione proposta sfida la nostra concezione tradizionale di giustizia e moralità.
Il termine “assassina” pur tecnicamente corretto, appare riduttivo e forse ingiusto in un contesto così estremo. Non si tratta di giustificare la violenza, ma di comprenderne la genesi.
Popova non è una cattiva donna, ma piuttosto una figura tragica, costretta a infrangere le leggi degli uomini per difendere la giustizia della sopravvivenza e della dignità.
Perché Popova è stata condannata e uccisa?
Perché Popova difendeva le donne! Aveva vissuto e assistito agli abusi perpetrati da padri, mariti violenti, stupratori e ubriaconi.
Perché ha insegnato loro a leggere e scrivere! La conoscenza è potere.
Perché offriva loro un lavoro, per sostenersi! L’indipendenza economica è la chiave per spezzare le catene della dipendenza e dell’abuso.
Sì, è vero, Popova ha ucciso questi uomini. Quanti? 300? Ma perché lo ha fatto? Perché la giustizia non proteggeva le donne. Non vendetta personale, ma una risposta estrema a un’ingiustizia.
Popova era una ragazza “interrotta”, moralmente e psicologicamente. Vede la sua vita fatta a pezzi dalla violenza di un padre che si trasforma in carnefice.
Popova si afferma in un mondo che le ha negato tutto. Ma le cicatrici non scompaiono. Rimangono nella mente!
E allora, Popova decide di aiutare. Ma non a modo vostro, non secondo le leggi di un mondo che ha permesso e giustificato la sua sofferenza. La sua non è vendetta. La sua è giustizia è per tutte quelle donne vittime.
Chiamarla semplicemente “assassina” è riduttivo. Lei ha offerto un’alternativa.
Popova non è un mostro. È una sopravvissuta
Nadezda, la donna che si erge a sua accusatrice. Una donna che, paradossalmente, deve la sua stessa sopravvivenza a Popova.
Nadezda, intrappolata in un’esistenza di miseria e brutalità, da Popova riceve gli strumenti per affrancarsi da un’ignoranza forzata, da una morte quasi sicura.
Eppure, nonostante tutto questo, cosa ha fatto Nadezda? L’ha uccisa!
Di fronte a questa realtà desolante il romanzo ci costringe a confrontarci con una verità scomoda. Cosa succede quando le vittime non hanno voce, né protezione, né speranza di giustizia?
La condanna di Popova diventa un’interpretazione unilaterale del “fatto”, imposta da un potere che non riconosceva la sua esistenza.
La situazione di Popova è emblematica di come la realtà legale e sociale di inizi ‘900 possa annullare l’esistenza di un individuo. Popova non “esisteva” giuridicamente, non esisteva come parte attiva della società. Quindi come può essere giudicata come assassina se lo stesso sistema nega la sua esistenza? La sua condanna diventa paradossale. La sua storia non è un semplice resoconto di eventi, ma un nodo di prospettive, ciascuna delle quali deforma o rivela una diversa “verità”.
Il “fatto” apparente è che Popova ha ucciso 300 uomini. Questo è ciò che i registri, le testimonianze (seppur filtrate) e la condanna rivelano. Ma cosa significa realmente questo “fatto? Popova, dichiarandosi innocente e specificando di aver ucciso solo mariti violenti, introduce una diversa interpretazione. Per lei, il “fatto” non è uccisione, ma liberazione.
Qui emerge la fragilità del “fatto” oggettivo. È un conteggio di vittime o un conteggio di vite salvate? L’atto di Popova si trasforma, da crimine a, forse, giustizia.
Ciò che è considerato “vero” o “giusto” è spesso una costruzione, un’interpretazione della realtà dettata dal potere e dalle prospettive dominanti. La sua storia non offre una risposta semplice, ma ci invita a un esame critico.
Non possiamo, né dobbiamo, assolvere Popova dal crimine di cui si è macchiata. La legge e la morale collettiva impongono una ferma condanna per la eliminazione di una vita umana. Tuttavia, la sua figura ci costringe a guardare oltre l’azione e a interrogarci sul contesto. È proprio in questa analisi del “perché” che si nasconde la possibilità di una comprensione più sfumata, se non di una attenuazione della condanna. Ci chiediamo infatti: si può condannare una donna che ha ucciso per necessità?
Se la necessità fosse stata l’impulso di un uomo, avremmo assistito ad un diverso trattamento giudiziario, forse persino a un’assoluzione o a una pena più mite? Questo interrogativo solleva questioni profonde sulla giustizia di genere e sulle diverse aspettative sociali. Spesso, le azioni disperate di una donna vengono giudicate con un metro più severo, ignorando le pressioni sociali, le limitazioni economiche, l’oppressione o la minaccia alla propria sopravvivenza, non è una scusa, ma un fattore che può ridefinire la percezione del crimine.
La sua storia ci invita a riflettere non solo sulla responsabilità individuale, ma anche sulla responsabilità collettiva nel creare condizioni che possono spingere individui a gesti estremi. La critica non è assoluzione. Riconoscere la complessità del caso di Popova significa aprire un dialogo sulla giustizia, sulla comprensione e sulle pressioni cui gli individui possono essere sottoposti, soprattutto quando nessuno li ascolta.
Autrice
Antonella Ossorio è nata a Napoli. Dopo alcuni anni d’insegnamento ha deciso di dedicarsi interamente alla scrittura, riconoscendo alla sua precedente esperienza professionale il merito di averle fatto comprendere meglio il mondo dell’infanzia.
Ha pubblicato numerosi libri per ragazzi con Giunti, Electa, Rizzoli ed Einaudi Ragazzi. Conduce laboratori di poesia e scrittura creativa. Il suo libro Ma quante smorfie ha vinto il premio Elsa Morante Ragazzi. Nel 2014 è uscito, per Einaudi, La mammana (Premio Società Lucchese del Lettori 2015). Nel 2018 pubblica La cura dell’acqua salata (Neri Pozza).