Vito di Battista: i mille volti della scrittura

Buongiorno Vito e benvenuto tra le pagine de ilRecensore.it, la rivista letteraria pensata per tutti i protagonisti di questa meravigliosa passione che è la lettura.

Vito di Battista - La voce degli esperti - ilRecensore.it

Vito di Battista è nato nel 1986 in un paese d’Abruzzo a trecento gradini sul mare e vive a Bologna. Nel 2012 è stato selezionato per il Cantiere di Scritture Giovani del Festivaletteratura di Mantova.

Ha scritto su “Futura”, la newsletter del “Corriere della Sera”, e su “Nuovi Argomenti”.

Il suo primo romanzo, uscito nel 2018, è Lultima diva dice addio.

Il buon uso della distanza è il recente romanzo edito Gallucci Editore.

Vito di Battista lavora dal 2016 come agente dei diritti esteri, editor e traduttore presso l’agenzia letteraria Otago. 

Fondata da Marco Nardini nel 2010, la Otago Literary Agency si occupa di gestione dei diritti d’autore, rappresentando scrittrici e scrittori, e cataloghi di case editrici, in Italia, all’estero e nei confronti di produzioni cinema/tv, e co-agenzie ed editori stranieri nel mercato italiano.

1- Rompiamo subito il ghiaccio con una domanda che possa spiegare ai non addetti ai lavori quale ruolo hai all’interno della tua agenzia letteraria e quale è stato il tuo percorso professionale.

«D’istinto direi che è stato un percorso un po’ atipico, ma mi rendo sempre più conto di come non esista affatto una via d’accesso comune al mondo degli “addetti ai lavori” editoriali.

Nasco in realtà come aspirante scrittore: Marco Nardini, che al tempo era un lupo solitario in Otago, è diventato il mio agente nel 2016. Mi ero laureato da poco in Letterature comparate, stavo tentando la strada del dottorato, e poco dopo ho iniziato un tirocinio post-laurea in agenzia. In seguito, ho firmato il contratto per il mio romanzo d’esordio e, dopo il tirocinio, sono entrato ufficialmente come socio in Otago per sviluppare la parte dei diritti esteri.

Le strade per l’editoria sono varie, come dicevo, ma credo che in ogni caso il mestiere si possa apprendere davvero solo sul campo, informandosi, tentando, sbagliando, incontrando, ascoltando, chiedendo consigli. O così almeno ho fatto io.

Molte agenzie operano su vari fronti contemporaneamente, e grazie a Marco ho iniziato a scoprire cosa significa davvero lavorare a un libro prima che diventi tale. Allo stesso tempo, ho provato a ritagliarmi dall’inizio uno spazio diverso, occupandomi dei cosiddetti “rapporti con l’estero”, ovvero di vendere i diritti di traduzione dei nostri titoli italiani in altri Paesi, ma anche costruire collaborazioni con agenzie e case editrici straniere per vendere i rispettivi diritti di traduzione in Italia. Per quanto non esistano distinzioni nette – in un’agenzia delle nostre dimensioni tutti fanno un po’ di tutto –, Marco resta ancora il punto di riferimento per ciò che riguarda le opere italiane in Italia, io nei confronti del resto del mondo o dal mondo verso l’Italia.

Dietro le quinte, sia io che Marco lavoriamo sui testi italiani ancora inediti e ci occupiamo di servizi editoriali, anche tramite collaborazioni esterne.»

2 – Ogni progetto porta con sé unidea ben precisa; qual è la filosofia che sta alla base della tua agenzia? 

«Ho ereditato, e con profondo consenso, la filosofia di Marco. Cerchiamo di muoverci con educazione e rispetto tanto nei confronti delle autrici e degli autori che rappresentiamo quanto verso i clienti dall’estero, sperando di ricevere lo stesso atteggiamento da loro e da tutte le altre figure con cui siamo in rapporto; di trattare ogni caso come un caso a sé stante, pur facendo tesoro delle esperienze acquisite. È un equilibrio delicato, ma si può cercare di raggiungerlo e mantenerlo, al netto dei più che plausibili errori da parte nostra, o delle più che plausibili indelicatezze dall’esterno.

Forse sembrerà banale, eppure più passano gli anni e più questa filosofia si rafforza e ci porta a prendere determinate scelte con convinzione, anche quelle che all’apparenza hanno poco di opportunistico.»  

3 – I ruoli che ricopri sono molteplici, da scrittore a editor, da traduttore ad agente, quale ti appaga di più?

«Credo che, ancor prima che con le parole, un agente al giorno d’oggi lavori con la sensibilità, il carattere, le aspettative e, ovviamente, deve avere a che fare anche con l’ego di chi scrive o opera nell’ambito.

Quindi quando ho davanti una nuova autrice, un nuovo autore o un nuovo cliente estero, prima cerco il modo migliore per porre le basi di un rapporto.

Ti direi che mi appaga questo processo, per quanto l’appagamento vada ovviamente ad ampliarsi quando si raggiungono dei buoni risultati.

È un processo versatile e che, con le dovute differenze, si applica tanto all’editing di un romanzo d’esordio quanto alla ricerca della migliore casa editrice italiana per un libro scandinavo.

Da un punto di vista puramente professionale, “aiutare” a portare i testi stranieri da noi è forse l’aspetto che più continua a darmi soddisfazioni.

A volte sono dei bestseller in patria e quindi l’iter è più lineare (ma non per questo sempre facile); in altri casi si tratta di opere più nascoste, non recenti o passate in sordina.

Cerco però di far sì che la mia presenza e il mio ruolo siano utili su vari livelli.

Sembrano processi distanti, ma non ci vedo molto di diverso dal lavorare con un’autrice o un autore sul suo testo prima che venga sottoposto alle case editrici italiane: cerchi di capire chi e cosa hai davanti, cosa puoi portare di buono, a chi affidarlo dopo che la (prima) parte del tuo lavoro si è conclusa.

Questi diversi ruoli, però, prevedono anche altro, anzi quasi lo reclamano: il mantenere una trincea privata, che per me è in primis quella della lettura senza scopi professionali, e a seguire la scrittura. In questi due ambiti, sono un’altra persona. Forse è allora questo che mi appaga più di tutto: a dispetto degli impegni e delle soddisfazioni esterne, riuscire a essere anche un’altra persona. O comunque provarci sempre.»

4 – Sei autore e traduttore: trovi che tra queste due attività avvenga una sinergia oppure, al contrario, pensare da autore rende difficile “farsi da parte”?

«Specifico che, per l’alta considerazione che ho verso chi lo fa con tutt’altra preparazione e competenza, mi sento traduttore con la t minuscola.

Traduco spesso sotto pseudonimo, forse per imbarazzo ma anche per mantenere uno spazio di libertà entro cui sentirmi meno esposto e continuare a imparare con meno pressione. Una qualche forma di sinergia avviene sempre, che si tratti di tradurre un classico o di editare un romanzo ancora inedito, e il confine con il sovrapporre se stessi, o una parte di sé, è labile. Eppure sta lì la sfida, tanto professionale quanto umana: farsi da parte e restarci “dentro” allo stesso tempo; guardare da una certa distanza e sentirsi coinvolti.»

Vito di Battista - Otago Literary Agency - La voce degli esperti - ilRecensore.it
5 – Parlando del tuo ruolo di agente dei diritti esteri: è difficile proporre autori italiani nel mercato estero? Quali sono i generi che riscontrano il maggior interesse allestero?

«In linea generale sì, è difficile, ma, come per quasi ogni aspetto del mondo editoriale, non esistono regole ferree. Abbiamo venduto i diritti di traduzione di un romanzo atipico, ben poco commerciale nel senso classico del termine, prima che diventasse un piccolo bestseller in Italia, e solo perché gli editori di quei Paesi se ne erano innamorati. In un altro caso, più recente, è successo con un romanzo pubblicato più di due anni fa, che purtroppo da noi non ha avuto la risonanza che avrebbe meritato.

Avendo in catalogo soprattutto testi letterari – da intendersi non in senso dispregiativo verso quelli che non lo sono, ma soltanto come delle pure “categorie” usate più dagli addetti ai lavori che da chi legge –, la difficoltà può comunque essere maggiore. Eppure, se le circostanze sono giuste, se si trova la casa editrice adatta, se si intessono e mantengono rapporti con le varie figure coinvolte (altre agenzie, scout, editor), succede.

Esistono poi le ondate di interesse – che però, per loro natura, vanno e vengono –, così come i premi letterari che aiutano a dare a un romanzo una riconoscibilità più definita.

Dire però quale sia il genere che riscontra maggior interesse sarebbe un parere riduttivo, o forse ingannevole. Per tentare comunque una risposta, potrei farti un esempio apparentemente opposto: anni fa, come dal nulla, il mondo ha scoperto i noir e i crime scandinavi. Erano ovunque, chiunque (o quasi) li cercava e pubblicava. Io al tempo ero un innocente studente universitario, ma oggi che lavoro per conto di varie agenzie e case editrici nordiche, mi rendo conto di come spesso sia più facile suscitare l’interesse di un editor italiano con un romanzo letterario che con un crime che viene dal Nord.

La marea si è ritirata, insomma. Almeno un po’.»

6 – In un mondo così bulimico come quello delleditoria, che macina titoli su titoli, sacrificando spesso la qualità a favore della quantità, quanto diventa difficile farsi spazio tra gli scaffali delle librerie? Quale genere narrativo sopravvive al consumismo editoriale?

«È un argomento che meriterebbe non solo molto più spazio per venire sviscerato, ma soprattutto altre voci oltre la mia, più esperte e diversificate, attinenti ai vari aspetti che compongono l’affresco generale: editori, librai, distributori, promotori, giornalisti, influencer e, non in ultimo, coloro che scrivono.

La bulimia però esiste, e si tratta di un modus operandi più che di un attributo transitorio. Questo eccesso non consente a ogni libro le stesse possibilità, quindi la difficoltà è notevole e tutto si gioca sul piano del tentativo. Un tentativo che ha più alte probabilità di buona riuscita se si basa su un intervento congiunto delle varie figure in campo: l’autrice o l’autore, l’agente, l’editore, l’ufficio stampa, il libro stesso.

Si sgomita, con più o meno educazione, con più o meno supporto. Con più o meno sicurezza di successo. A volte non accade niente, molto spesso accade poco, meno spesso qualcosa di importante, raramente si arriva al grandissimo pubblico, alla fama e alla ricchezza. Tutto sta, forse, in quelli che erano gli obiettivi che ci si erano prefissi, e quindi è forse quella la fase più rilevante: capire verso cosa abbia senso puntare con quel testo specifico, dove può idealmente arrivare. Esiste poi il grado di imprevisto, che è in realtà fondamentale. 

Anche in questo caso, però, non credo di avere l’autorità e le competenze per dire quale genere sopravvivrà. Dalla mia prospettiva – di lettore ancor prima di addetto ai lavori – a conservarsi sono la qualità, la voce che riesce a differenziarsi, la storia che si fa emblema di un momento e al contempo paradigma di un qualcosa che va oltre il tempo.

Il resto fa rumore nel presente in cui esiste ma poi passa, come ha sempre fatto.»

7 – Come per il lettore di professione, così per leditor c’è il rischio di diventare negli anni sempre più esigente e giudicare uno scritto con più severità. Riesci a ovviare questo inconveniente”?

«Non so quanto sia davvero un inconveniente, in realtà, o almeno non in senso stringente. Mi viene da pensare che come lettore, intendo lettore privato, man mano che passano gli anni divento sempre più severo. Ma è una severità quasi spontanea, dettata dai gusti, da come ho piacere a gestire quel mio spazio intimo.

L’esigenza e la severità devono esistere anche da un punto di vista professionale, senza però venire dettate dai gusti. Forse sta soprattutto qui la differenza. In un mondo in cui la fallibilità è alta qualunque sia il ruolo che si ricopre – e dove però si ha a che fare con una materia quale è la scrittura, che merita sempre riguardo –, bisogna mettersi in dubbio. Al contempo, è necessario prendere una decisione. E se quella decisione ha alle basi una certa consapevolezza di com’è il mondo al di fuori della pagina, si tratta forse di una severità a buon fine. 

Mi permetto di fare un esempio, che ovviamente non è esemplificativo di una tendenza generale.

Quasi un anno fa ci è arrivato il romanzo di un aspirante esordiente, un ragazzo che ci ha scritto dietro consiglio di una editor di una casa editrice, che aveva letto la prima stesura ma l’aveva trovata “non pronta”.

Lei gli aveva consigliato un paio di agenzie, tra cui la nostra. Ho letto il romanzo in una sera e, totalmente rapito, ho scritto subito all’autore. Per inciso, è un romanzo che ruota attorno a un argomento poco consueto nella produzione contemporanea nostrana, uno di quei temi ritenuti “delicati”, verso cui gli editor appaiono generalmente molto prudenti.

D’istinto avrei potuto dire all’autore di ignorare il parere di quell’editor, che era solo un’opinione fra cento possibili, che il romanzo era pronto così; in tal caso, però, non sarei stato “severo”. Invece, ho corso il rischio: sono stato esigente nei suoi confronti perché pensavo fosse per il suo bene, senza imporre nulla ma accompagnandolo lungo la strada che secondo me poteva essere la migliore per il suo testo, e facendolo solo quando lui si è trovato in accordo con me.

Abbiamo lavorato al romanzo per sei mesi, poi Marco lo ha sottoposto alle case editrici. Pur trovandolo sempre valido, alcuni editor lo hanno rifiutato perché “troppo audace” visto il tema trattato, altri perché “poco audace” e soprattutto in virtù del tema trattato, altri perché non sapevano “come venderlo”, altri ancora (pochi) perché non lo ritenevano stilisticamente pronto e, per le loro validissime ragioni, non erano disposti a lavorarlo. Poi è arrivata un’editor che lo ha trovato perfetto, “già pronto”.

Chi aveva ragione? Chi lo rifiutava o chi alla fine lo ha accettato così com’è?

La prima editor che aveva espresso delle perplessità, e io che le avevo dato ragione cercando poi di fare del mio meglio per aiutare l’autore, o quegli editor che lo avrebbero lavorato ancora, ma non hanno dimostrato interesse a farlo (o, con più probabilità, non ne avrebbero avuto il tempo)? In tutta sincerità, credo nessuno.

La ragione è un concetto che non si incastra bene con il mondo editoriale, e quella che arriva col senno del poi non vale. A importare davvero sono il valore di un testo (qualunque sia il suo genere, e al netto di un’oggettività totale che è in realtà impensabile), le circostanze, gli incontri, e, da parte nostra, una giusta dose di severità, sperando che si riveli utile e lungimirante.» 

8 – Parliamo di soddisfazioni, quelle che arrivano dopo tanto lavoro e tanta passione, la più sorprendente quale è stata? E da qui a dieci anni, quale risultato persegui?

«Se rispondo anticipando le tue domande seguenti e spostando quindi la lente sull’altra parte di me, non è per amor proprio ma perché scegliere una fra le tante soddisfazioni professionali che riguardano le opere degli altri sarebbe un torto. La soddisfazione più sorprendente è stata quando Marco, che è a tutt’oggi il mio agente, dentro un supermercato Tesco di Londra durante la Book Fair mi ha detto che un editor, dopo aver letto il resto delle cose che avevo scritto, lo aveva chiamato e voleva mettermi sotto contratto a scatola chiusa, per un romanzo che non esisteva ancora. È una soddisfazione tanto mia quanto di Marco, perché a scrivere sono io ma è lui che, sin dal mio esordio, si è preso cura di quelle parole.

Per il resto, non so darmi risultati da perseguire, a parte uno: da qui a dieci anni spero di aver cambiato lavoro, o comunque di aver mutato in parte la tipologia di quanto faccio ora.

Vorrei che avesse sempre a che fare con i libri, che tenesse sempre le parole degli altri al centro, ma con una formula diversa, ancora più viva e libera nel senso più basilare e genuino dei termini.

In ogni caso, ho promesso a Marco che resterà il mio agente qualunque cosa accada, quindi almeno questo aspetto non cambierà.»

9 – Il buon uso della distanza edito da Gallucci editore è il tuo recente romanzo, che personalmente ho apprezzato per raffinatezza e profondità. Tanti sono i piani di lettura; dalla ricerca di sé, al senso dell’amore, dal confine tra arte e vita, al vero significato della scrittura…

«Mi sono dilungato così tanto con le domande precedenti che, anche per questo motivo e non solo per imbarazzo, ora ti rispondo: è così. O almeno, tanti erano i piani di lettura nella mia testa, e mi fa piacere che traspaiano adesso che non si trovano più lì.»

Vito di Battista - Il buon uso della distanza - ilRecensore.it -
10 – Lo spirito di Roman Gary, unico autore ad aver vinto due volte il Premio Goncourt, pervade tutto il romanzo. La scelta di vivere all’ombra del proprio talento attraverso vari pseudonimi è una possibilità attuabile e forse comprensibile?

«Credo di sì, almeno dalla mia prospettiva. È anche vero, però, che chi prende o ha preso questa scelta lo ha fatto secondo le proprie motivazioni e i propri metodi, sempre diversi. Romain Gary, Elena Ferrante, J.T. Leroy, George Sand, Patrick Dennis, in una certa misura anche Fernando Pessoa… è una lista non infinita, ma a cui è di certo difficile mettere un punto.

Cosa accomuna davvero tutti questi nomi?

Nulla, alla fine, se non l’aver scritto sotto pseudonimo. C’è chi resta sempre nell’ombra, chi lo fa solo all’apparenza, chi è costretto a venire allo scoperto e chi decide di rivelarsi. Da parte mia, ho scritto la storia di un personaggio, Pierre Renard, che prende questa scelta con la promessa di libertà e di assoluto, arrivando infine a capire che non era vero, e che per tenere in vita quella scelta diventerà il peggiore fra tutti. Un personaggio che ha usato le parole come un’arma e non come uno strumento. Ma anche questo, dopotutto, è solo il suo caso.»

11 – La storia gira attorno al mondo dell’editoria, rivelandone magheggi e bassezze varie, viene automatico chiedersi se, in qualche modo, ne sei stato protagonista diretto …

«Lavoro in questo ambiente e, seppur da pochi anni e abbastanza in disparte, sento e vedo cosa mi succede intorno, quali sono le dinamiche, come operano e cosa implicano certe attitudini. Per quanto mi riguarda, il mio secondo romanzo è stato pubblicato cinque anni dopo l’esordio, ma non è il secondo romanzo che ho scritto.

Unendo queste due frasi, forse una risposta più netta è quasi superflua.» 

12 – In modo per nulla velato c’è la denuncia verso la critica letteraria e i “baroni” che determinano le sorti dei libri. Una recensione ha ancora tanto potere?

«Nel caso della storia di Pierre Renard, la denuncia vive nei confini della finzione, è dettata dalla sua visione ed è conseguenza delle sue scelte, ma si rende, per forza di cose, anche specchio di cosa accade nel reale. E in qualunque ambito del reale, non solo quello editoriale, esistono i “baroni”, il clientelismo, le regole non scritte, i favori da ricambiare, i conoscenti da sistemare, le antipatie che bruciano terreni. Riguardo le recensioni, al giorno d’oggi il loro effettivo potere (che è ben diverso dal valore intrinseco) forse andrebbe indagato non fra gli addetti ai lavori o gli scrittori, ma fra chi compra i libri, sebbene anche fra questi ultimi ci sarà chi si affida a un certo grado e chi meno. » 

13 – Negli ultimi tempi, soprattutto negli States e negli UK si parla di un nuovo modo di leggere, rileggere e scrivere i libri e di una professione: il sensitivity reader, un editor che sincarica di passare al setaccio i testi alla ricerca di parole e contenuti offensivi. È “unisteria di massa” come ha detto Ian McEwan oppure una fase necessaria?

«Credo sia una direzione verso cui aveva senso andare, almeno nei suoi principi, in quanto stimolo di riflessione. Penso però anche che, come tutto ciò che interessa la complessità, non sia facile trarre una conclusione netta, o che sia controproducente farlo per partito preso. Come ogni processo che implica uno scarto, una cesura, il rischio che si viri verso un eccesso, e quindi un’imposizione, è alto.»

14 – Infine chiudiamo con i consigli che ogni lettore apprezza sempre: ci puoi citare tre libri che secondo te dovrebbero leggere tutti e un autore da scoprire o riscoprire?

«Dato che ne Il buon uso della distanza Pierre Renard è uno scrittore che pubblica solo opere prime, resto anch’io nell’ambito degli esordi: Il ragazzo morto e le comete di Goffredo Parise, Altre voci, altre stanze di Truman Capote e Il libro del sale di Monique Truong.

Mi permetto di concedermi un bonus: Memorie di una maîtresse americana di Nell Kimball, che è al contempo un esordio, l’unica opera pubblicata a questo nome, e un romanzo scritto molto probabilmente sotto pseudonimo da un misconosciuto autore.

L’autrice da scoprire e riscoprire è Colette, che a sua volta ha esordito sotto pseudonimo (per imposizione del marito, che si finse al tempo il vero autore), e le cui opere migliori sono (forse non a caso) quelle della maturità uscite a suo nome, su tutte Il puro e l’impuro.»

Grazie mille per la disponibilità :-))

Grazie mille a voi!

La recensione al romanzo Il buon uso della distanza di Vito di Battista è disponibile online da LuciaLibri di Salvatore Lo Iacono.

Autore

  • Patty

    Socia fondatrice della Rivista ilRecensore.it SEO Content Creator, traduttrice, ex responsabile della rubrica Interviste di Thriller Life, Blogger e firma di recensioni su vari siti letterari. Cresciuta a Goethe e cioccolata, ho trascorso gran parte della vita tra l’Italia, la Germania e la Francia, apolide nel Dna tanto quanto nel Pensiero. Gli studi classici prima e Scienze Politiche poi, hanno sviluppato il mio senso critico, sfociato poi nella mia vita da BookBlogger. Sono sempre in cerca della storia perfetta. In borsa porto Joyce e Jackson, le penne che compro in giro per il mondo e tanta passione.