Anatomia dell'Horror: dentro l'oscurità della mente - ilRecensore.it
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Anatomia dell’Horror: dentro l’oscurità della mente

Cosa accade quando leggiamo horror?

Perché cerchiamo la paura, la mostruosità, la follia?

Forse, come scrive Patrick McGrath, perché l’orrore è l’unico modo per conoscere la mente umana nei suoi abissi.

slaw-Beksinski - 1989 - artista polacco maestro del surrealismo dispotico - 
Web Image -Nowa Huta Cultural Center - Cracovia -
Zdzislaw-Beksinski – 1989 – artista polacco maestro del surrealismo distopico – 
Web Image -Nowa Huta Cultural Center – Cracovia 

C’è un momento, leggendo una buona storia horror, in cui qualcosa si incrina.

Non è solo paura: è un piccolo collasso del reale. Un battito che salta, un dubbio che si insinua — e se non fossimo mai stati davvero padroni della nostra mente?
È in questo varco, fragile e luminoso, che si annida l’essenza dell’horror.

Patrick McGrath, in Scrivere di follia, suggerisce che ogni racconto dell’orrore è innanzitutto un racconto della mente che si sfalda. La follia, per lui, non è un tema da analizzare, ma un punto di vista da cui osservare il mondo: “il modo in cui il reale, sotto pressione, inizia a deformarsi.”

Cresciuto nel manicomio criminale di Broadmoor, diretto dal padre, psichiatra di fama, McGrath trascorre l’infanzia tra le mura dell’istituzione e i corridoi della mente. Da lì deriva la sua visione cupa e affascinata della natura umana — un universo in cui il razionale e l’abissale convivono, separati da una soglia sottile.

Scrivere di Follia di Patrick McGrath - Anatomia dell'Horror - ilRecensore.it

In Scrivere di follia McGrath traccia un parallelo intrigante: studiare, curare e scrivere la follia sono, in fondo, attività simili. Tutte ruotano attorno all’uomo, alla sua fragilità e al tentativo di dare forma a ciò che lo minaccia.

La parte oscura della mente è da sempre la materia prima della narrativa horror: da Dracula ai racconti di Edgar Allan Poe, dalle fondamenta gotiche di Mary Shelley fino alle derive psichiche di Sylvia Plath, dal grottesco di Shirley Jackson alla precisione febbrile di Nabokov in Fuoco pallido.

Ogni autore ha esplorato a suo modo la disgregazione psichica — un labirinto in cui possiamo, a seconda dei casi, dilettarci, inorridire, distanziarci o riconoscerci.

Dal gotico ottocentesco alle derive psichiche del Novecento, l’horror lavora sempre sulla stessa crepa: la perdita di controllo, la vertigine della coscienza, il ritorno del rimosso.

È il linguaggio della frattura, l’arte dell’instabilità.

Mary Shelley, Poe, James, Jackson, Lovecraft, McGrath — tutti raccontano, in forme diverse, la stessa paura: che ciò che chiamiamo “umano” non sia poi così solido.

Ma perché continuiamo a cercare questa paura? Perché apriamo volontariamente un libro, o accendiamo uno schermo, per affrontare ciò da cui normalmente fuggiremmo?


Forse perché l’horror, più di qualsiasi altro genere, ci permette di contenere il caos. Ci offre un laboratorio emotivo in cui la follia, l’angoscia, il dolore trovano una forma, una cornice. Come scrive McGrath, “la follia, quando viene narrata, smette di essere solo distruzione e diventa conoscenza.”
Leggere horror è, in fondo, un atto di conoscenza. È guardare nell’abisso, ma con la certezza di poter richiudere il libro.

Autore definito “neogotico”, McGrath ha fatto della follia la sua materia narrativa.

Nei romanzi Follia, Spider e Trauma, il terrore non viene dall’esterno ma dall’interno: dai meccanismi della psiche che si inceppano, dai fantasmi che la ragione non riesce più a contenere. L’orrore è una voce, una corrente sotterranea che attraversa l’io e ne incrina i confini.

Il cuore rivelatore di E.A.Poe - Anatomia dell'horror - ilRecensore.it

L’orrore è una voce, una corrente sotterranea che attraversa l’io e ne incrina i confini.

È la stessa voce che risuona nei racconti di Edgar Allan Poe, nei sussurri de Il cuore rivelatore o Il gatto nero: la mente che si osserva mentre crolla, la coscienza che diventa il proprio mostro. In Poe l’orrore è la precisione della follia, la logica impazzita che si piega su sé stessa.

Non vi avevo già detto che quel che prendete per pazziano è che una iperacutezza dei miei sensi?” E.A.Poe – Il cuore rivelatore 

E ancora prima, nel gotico ottocentesco, Mary Shelley e Robert Louis Stevenson avevano già disegnato il perimetro di questa scissione: Frankenstein e Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde raccontano la medesima ossessione, quella di un io diviso, di una creatura che non riconosce più il proprio volto.

Che dire poi delle discese psichiche di Shirley Jackson, maestra nel dare forma narrativa alla brutalità che si nasconde dietro la facciata impeccabile della normalità?


Dietro ogni esperimento narrativo (impossibile non citare il terrore clustrofobico che attanaglia il lettore che cerca di decifrare le pagine astruse di House of leaves di Danielewski), dietro ogni grande storia horror, si nasconde la domanda più inquietante di tutte: chi siamo quando smettiamo di essere noi stessi?

Freud avrebbe chiamato tutto questo perturbante — l’Unheimlich — ciò che è insieme familiare e inquietante, noto e minaccioso; definiva il perturbante come “il ritorno del rimosso”: ciò che la mente cerca di espellere, ma che continua a riaffiorare. 

Freud, che si appropriò dei temi del gotico trasformandoli in una scienza, è stato letto spesso come un autore horror ante litteram, maestro nel descrivere la molteplicità e la provvisorietà dell’identità. «I suoi casi clinici stanno accanto ai racconti di Poe» conferma McGrath.

Il lettore di horror, dunque, non è un voyeur della sofferenza, ma un esploratore dell’abisso: legge per misurare i propri limiti, per riconoscere nell’orrore la possibilità di catarsi. Come nella tragedia greca, anche qui la paura è conoscenza: ci permette di affrontare, simbolicamente, ciò che nella realtà ci paralizzerebbe.

Il filosofo Noël Carroll, nel suo The Philosophy of Horror, parla di “paradosso della paura”: perché dovremmo trarre piacere da emozioni negative come l’orrore o il disgusto? La risposta, dice Carroll, sta nell’intreccio tra curiosità e sicurezza. Viviamo il terrore in uno spazio protetto — la pagina, lo schermo — dove possiamo osservare la distruzione senza esserne travolti. L’horror funziona come un vaccino emotivo: ci espone al contagio in forma controllata

Quando leggiamo Follia o L’incubo di Hill House non cerchiamo solo il brivido: cerchiamo una forma di riconoscimento. Ci interessa il momento in cui il mondo perde coerenza, perché in quel frammento ritroviamo la nostra stessa fragilità.

Leggere horror, allora, è un gesto doppio: di fuga e di ritorno.


Fuggiamo dal quotidiano per poterci guardare da fuori, e nel farlo ritorniamo a ciò che siamo davvero — esseri vulnerabili, abitati da paure che non smettono di mutare.
Il terrore, dice McGrath, “è solo il linguaggio con cui la mente prova a dire ciò che non sa dire in altro modo.”


E forse, in tempi come i nostri, così saturi di realtà e così poveri di senso, l’horror è una delle ultime lingue oneste che ci restano


Ma l’abisso non è più soltanto interiore.

L’horror contemporaneo ha cambiato direzione: oggi il mostro non viene da dentro, ma da fuori — dalle nostre strutture sociali, dai sistemi che ci governano, dalle paure collettive che ci attraversano.
L’orrore si è fatto sociale: ha il volto del controllo, della disinformazione, dell’instabilità climatica, della perdita di identità, della violenza gratuita. Non è più la follia individuale che ci spaventa, ma quella collettiva.

A ben vedere, ogni epoca scrive i propri fantasmi — e li chiama “mostri” solo per non doverli riconoscere.


Autore

  • Patrizia Picierro

    Socia fondatrice della Rivista ilRecensore.it
    SEO Content Creator, traduttrice, Blogger e firma di interviste e recensioni su vari siti letterari.

    Cresciuta a Goethe e cioccolata, ho trascorso gran parte della vita tra l’Italia, la Germania e la Francia, apolide nel Dna tanto quanto nel Pensiero.
    Gli studi classici prima e Scienze Politiche poi, hanno sviluppato il mio senso critico, sfociato poi nella mia vita da BookBlogger.
    Sono sempre in cerca della storia perfetta.
    In borsa porto Joyce e Jackson, le penne che compro in giro per il mondo e tanta passione.

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