Si tratta della città più grande dell’Erzegovina, regione meridionale e mediterranea dello stato di Bosnia ed Erzegovina, e probabilmente si tratta anche della città più divisa d’Europa. È cinta su ogni lato dalle montagne e giace in una conca, protetta e imprigionata. È divisa in due parti ineguali e contrapposte dalle acque turchesi e gelide della Neredva, sulla quale sorge uno storico ponte ad arco di epoca ottomana (o quasi), lo Stari Most, autentico simbolo della regione.

Sarebbe bello e ordinario raccontare la storia di una città con un cuore antico, in pietra bianca, che si rispecchia sulle rive del fiume come nel più idilliaco dei panorami.
Ma in Bosnia Erzegovina, e a Mostar in particolare, le storie da raccontare non sono mai così semplici.
C’è una Mostar ad est, posta prevalentemente da quel lato del fiume, con i propri servizi, non molto diversi da quelli di una nostrana città di medie dimensioni: ci sono le poste, la scuola e l’università, un fornitore d’acqua e uno di servizi di pulizia pubblica, un corpo di vigili del fuoco, persino una squadra di calcio col proprio stadio. E poi, di fronte, a fissarla in un perpetuo impasse di tensione e incomprensioni, c’è Mostar dell’ovest, che ha le stesse identiche prerogative, le stesse infrastrutture, gli stessi servizi, solo che sono suoi e suoi soltanto.
La divisione urbana rispecchia nient’altro che la divisione della popolazione, composta da bosgnacchi (44,1%, secondo il censimento del 2013, residenti nella cosiddetta Mostar Est) e croati (48,4%, non c’è bisogno di dirlo, situati a ovest della città).

Non è semplice raccontare come Mostar la rossa, la città dei partigiani, simbolo del progetto jugoslavo, sia diventata il più lampante esempio della complessa convivenza tra popoli che la storia ha posto uno di fronte all’altro. Prima della guerra, gareggiava con Vukovar (nell’attuale Croazia) per numero di matrimoni misti; al censimento del 1990, il 12% degli abitanti, in imbarazzo nel doversi definire mediante un’unica nazionalità, date le frequenti origini familiari frammiste, si dichiara semplicemente “jugoslavo”. Poi, all’improvviso, la fine del mondo, o almeno di quello conosciuto fino a quel momento. Proviamo a semplificare una vicenda complessa, caratterizzata da molteplici sfumature e caratteri che variano di regione in regione.
Nel febbraio 1992 viene indetto un referendum, con le modalità previste dalla Costituzione della Jugoslavia di Tito, a seguito del quale è dichiarata l’indipendenza della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina. Lo scontro è pressoché immediato: l’esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, sostenuto da ciò che rimane dell’Armata Popolare Jugoslava, attacca il neonato stato indipendente, spinto da ideali nazionalisti nel perseguimento del progetto Grande Serbia.
In questa situazione, i croati bosniaci residenti a Mostar si alleano con la popolazione bosgnacca musulmana per combattere l’invasore.
I serbi vengono effettivamente respinti dalle forze alleate nel giugno del ‘92, ma la pace ha breve durata: la strategia di segregazione su base etnico – religiosa, messa in campo da Boban, autoproclamato leader dei croati di Bosnia, porta a un rapido deterioramento dei rapporti tra gli ex alleati (ed ex amici, ex vicini di casa, ex molte cose). Ha così origine il secondo conflitto, in continuità col primo, la guerra croato – musulmana.

Si tratta di un conflitto che non ucciderà unicamente soldati e cittadini inermi davanti al tiro dei cecchini e dei colpi d’artiglieria: è proprio durante questo periodo che verrà coniato il termine urbicidio, ad opera dell’architetto Bogdan Bogdanovic (che incontreremo poco più avanti nel corso di questo viaggio), particolarmente efficace nello scopo di descrivere la devastazione non solo materiale, ma anche e soprattutto mirata ad annullare il senso identitario, la memoria storica e il patrimonio culturale di un’intera città.
Tale operazione a Mostar culminerà con la distruzione del celebre Stari Most, il ponte vecchio della città, capolavoro di architettura ottomana, l’unico a rimanere in piedi resistendo per 2 interi giorni sotto le cannonate del Consiglio Croato di Difesa.

Un’operazione di portata strategica quasi nulla, finalizzata soprattutto a rimuovere l’identità della popolazione mostarina, di quella musulmana in particolare. Come raccontano numerosi testimoni, tra tutti Azra Nuhefendić e Dario Terzić, la gente, in quell’infame 9 novembre ‘93, usciva di casa sfidando i colpi d’arma da fuoco che piovevano incessanti sulla città per andare a vedere l’improvvisa assenza dell’unico arco del loro ponte, abbattuto da sponda a sponda, che li lasciava orfani di un simbolo, come lo si rimane di un parente.
“La gente passava incredula, guardava nel vuoto e continuava a ripetere: “Non c’è più il Ponte, non c’è più Mostar.
Tutti erano convinti che questa fosse la fine di tutto… La fine di una città.”*
Oggi il ponte sorge nuovamente, ricostruito secondo il piano originale, con la pietra bianca estratta localmente, e unisce ancora una volta le rive opposte di una città divisa. Di notte risplende sulle acque nere della Neretva, illuminato dalle luci donate dal governo italiano come contributo alla ricostruzione. Si tratta dell’attrazione più visitata della Bosnia, dopo Medjugorje, ed è un vero e proprio segno di riconoscimento della regione.

Nonostante questo, la maggior parte, circa l’80%, dei giovani mostarini croati, non lo ha mai potuto vedere: loro non attraversano il quartiere musulmano, timorosi di quello che potrebbero trovarci, forse estremisti islamici, tagliagole, chissà.
È su pregiudizi di questo tipo che si basa la vita in città, un timore del diverso, esacerbato dalla mancata reciproca conoscenza, che ha lasciato la sua impronta anche sul nuovo Stari Most: il cartello che ne sancisce l’appartenenza al patrimonio UNESCO è scritto in inglese e in tre lingue locali, bosniaco, croato, serbo. Queste tre iscrizioni, due in alfabeto latino e una in cirillico, sono perfettamente sovrapponibili. Le tre lingue condividono in effetti il 90% del lessico e delle strutture grammaticali, essendo forse, nei fatti, varianti di un unico idioma.
La vista migliore del ponte, come ampiamente affermato per promuoverne la vendita dei biglietti, la si ha dal minareto della moschea Koski Mehmed Pasha (solo per coraggiosi, dato che per salire è necessario percorrere una stretta scala a chiocciola, per arrivare ad un’altezza di circa 30 metri, protetti dal vuoto soltanto da una misera balaustra).
Spostando lievemente lo sguardo verso ovest, si potrà vedere sulla cima della collina Hum un’enorme croce, che incombe sulla parte cattolica della città. Si tratta della Croce del Millennio, costruita per celebrare i 2000 anni di storia del cattolicesimo. Essa, non del tutto casualmente, segna anche il punto da cui le unità croate hanno bombardato fino al crollo lo Stari Most, cuore della parte musulmana della città.

Guardando ancora più a ovest, il paesaggio è segnato dai 100 metri dell’edificio più alto della città: si tratta della Torre della Pace, campanile della chiesa cattolica della città, non bello, pensato per sovrastare l’intera regione, in una eterna gara a chi ha il controllo.
Un’ultima missione, prima di lasciare la città: una visita al Cimitero Monumentale Partigiano di Bogdan Bogdanović, pensato come luogo di riconciliazione e memoria, dedicato agli antifascisti caduti durante la liberazione di Mostar. L’imponente costruzione in pietra bianca, situata nella parte occidentale della città, oltre il Bulevar che ha costituito il fronte negli anni ’90, risale lungo il fianco di una collina, e osserva la città dei vivi con un pizzico di giudizio.
Da anni ormai il sito è abbandonato al degrado, vittima degli atti vandalici di stampo nazionalista, frutto di una mentalità contraria ad una memoria comune, interetnica, di cui il cimitero voleva essere simbolo. Le lapidi divelte e spezzate a colpi di esplosivo e di mazza, la spazzatura abbandonata ovunque, la vegetazione che si riprende gli spazi, tutto sembra voler dileggiare il ricordo di chi, a prescindere dalla propria nazionalità, origine, religione e convinzione politica, è morto per la libertà di tutti i popoli.
Un disinteresse che uccide ancora una volta, soprattutto pensando all’indifferenza dell’UNESCO e delle istituzioni europee, che, pur dichiarando a parole il proprio antifascismo, non hanno ritenuto che fosse un luogo da tutelare, abbandonandolo alla mancanza di una narrazione capace di unire.

In questo panorama, in controtendenza muovono i propri passi realtà come OKC Abrasević, un centro culturale giovanile che si pone come zona franca in una città che è un fronte di guerra. L’associazione è nata nel 1926, con l’ideale di costituire uno spazio culturale per gli operai, secondo il principio socialista della divisione della giornata in lavoro, svago e riposo.
Sarà tuttavia chiusa e riaperta a periodi alterni, in base al clima politico nazionale, e vivrà la sua fase più produttiva dopo il ’45 e fino all’inizio delle guerre balcaniche negli anni ’90. A seguito della distruzione pressoché totale, risorgerà come nuovo Abrasević, in un edificio appositamente costruito, a fianco al rudere della vecchia sede. Qui, oggi, vengono organizzati concerti, eventi, mostre, corsi di formazione. Vi ha sede l’emittente locale AbrašRadio e due studi di registrazione, a disposizione dei gruppi musicali emergenti. Ognuno è il benvenuto purché non senta la necessità di sbandierare la propria appartenenza a una fazione o all’altra. Un po’ come dire che, dove l’onda della politica si infrange su uno scoglio di difficoltà insormontabili di cui spesso essa stessa è causa, arrivano i rivoli coraggiosi dell’attivismo dal basso.
È così che si arriva e si riparte da Mostar: con la netta sensazione di essere di fronte al grande fallimento del progetto europeista, dimostratosi incapace di abbracciare un futuro costruito sulle fondamenta delle proprie origini multiculturali e della memoria condivisa.
Un’Europa traballante, stupidamente frammentata, incapace di ricordare il passato e di immaginare un presente. Allo stesso modo, si intuisce che tutto il necessario è lì, non occorre altro: per immaginare un domani c’è tutto quanto, nelle profondità di un passato che conosceva la convivenza pacifica prima ancora che fosse necessario darle un nome e una bandiera.
I like burek, it’s a pie, you will love it if you try
I like grill, I like meat, cake baklava, very sweet
I like peace, stop the war, politicians, I ignore
Olive branch, white pigeon, is Google new religion? *
* Dario Terzić, La nuova vita del Vecchio ponte (https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/La-nuova-vita-del-Vecchio-ponte-106760)
* Dubioza Kolektiv, Balkan Boys, 2025